Svizzera, la discussa oasi dell’inclusione

In concomitanza con il Locarno Film Festival, compiamo un viaggio non scontato nella complessa filmografia elvetica


Quest’anno il Festival del Film di Locarno ospita sette film – più un benedetto restauro – della cinematografia di casa. Nulla di sorprendente: basta guardare ai “fratelli maggiori”, Cannes e Venezia, per riscontrare un (ragionevole?) sciovinismo anche più accentuato. A dar conto dei singoli titoli pensano le cronache giornaliere dal Ticino, ma una particolarità salta all’occhio: a parte un documentario del veterano Daniel Schmid, in molti casi la regia è di autori internazionali – come il filippino Lav Diaz o il francese Sylvain George, – che in Svizzera hanno trovato mezzi finanziari e convinzione produttiva. Né è un vincolo la località delle storie, che spaziano invece dall’India al Portogallo. Si dirà che questo è ormai un tratto comune al cinema del mondo, sempre meno vincolato a barriere nazionali, e che la Svizzera stessa è da sempre un crogiolo multietnico con radici italiane, tedesche, francesi. Ma ci accorgeremo presto che nel caso specifico si tratta di una storia contraddittoria che va di pari passo con la ricerca di un’identità comune. Locarno è a poco più di un’ora di macchina da Milano e con la Lombardia condivide le due sponde dello stesso Lago Maggiore. Eppure andare in macchina dalla vicina Lugano fino a Ginevra richiede diverse ore e una specie di periplo che sconfina nei cantoni di lingua tedesca: come se le barriere naturali delle montagne e quelle terrestri degli ingegneri si fossero impegnate a contrastare le diverse matrici dello stesso popolo.

Diciamo cinema svizzero, ma cosa ne sappiamo? La memoria corre a un film italiano, Pane e tulipani del ticinese Silvio Soldini, oppure al graffiante Pane e cioccolata di Franco Brusati che, peraltro, in Svizzera aveva studiato. I cinefili di memoria lunga citeranno Heidi, diretto da Luigi Comencini dal romanzo della zurighese Johanna Spyri. E infine, chi volesse far sfoggio di cultura cinematografica metterebbe in fila autori da cineclub come Alain Tanner, Claude Goretta, Michel Soutter del Groupe 5 di Ginevra o Markus Imhof e Daniel Schmid di cui a Locarno si riscopre uno dei capolavori, La Paloma. È la generazione dorata degli anni ’60, cresciuta nel solco del ginevrino Jean-Luc Godard o quella, di matrice tedesca, subentrata alla fine dei ’70 e di cui Fredi Murer è ancora il più carismatico esponente.

Nella mia memoria restano emblematici almeno due film: La barca è piena (1981) di Markus Imhof che per la prima volta mostrò agli svizzeri il loro volto crudele e xenofobo rievocando una pagina buia ai tempi del nazismo e Dans la ville blanche di Alain Tanner del 1983 con al centro un improbabile marinaio svizzero che si arena a Lisbona nei giorni incerti dopo la caduta del dittatore Salazar. Da un lato c’è una volontà frustrata di fare i conti con la propria storia; dall’altro c’è l’apertura al mondo che forza i confini locali e si smarrisce in territori da esplorare.

L’oggi appartiene ad autori spesso ancora da scoprire o a talenti ruvidi e duri come quello di Ursula Meier che abbiamo imparato a conoscere tra Cannes (Home) e Berlino (Sister o La ligne). Un po’svizzera anche è l’italo-austriaca Tizza Covi, da sempre beniamina di Locarno con il suo coautore Rainer Frimmel. E se vogliamo restare in Ticino non possiamo omettere Willi Hermann, Rolando Colla, Erik Bernasconi, il mago della fotografia Renato Berta e l’appassionata produttrice Tiziana Soudani. Tanti nomi spesso sconosciuti al grande pubblico, ma che rappresentano la dorsale forte di una cinematografia a cui lo Stato federale guarda con attenzione fin dagli anni ’30.

Già, perché la storia della Svizzera sul grande schermo comincia con Maurice Andreossi che installa il primo proiettore all’Alpineum in Rue du Vieux-Billard a Ginevra. Ma il primo lungometraggio svizzero apparirà solo nel 1917. È Der Bergführer (La guida alpina) di Eduard Bienz, che è anche il primo «film di montagna», un genere diventato poi celebre grazie alle produzioni tedesche con Leni Riefenstahl e Luis Trenker (in verità nativo di Ortisei). Il primo regista capace di varcare le alpi sarà Leopold Lindtberg che ottiene fama internazionale con Die letzte Chance (L’ultima speranza, 1945). Il film, che narra la storia di un gruppo di persone in fuga durante la seconda guerra mondiale, vince il primo premio al Festival di Cannes e un Golden Globe negli Stati Uniti. Il primo successo da box office casalingo è invece proprio Heidi con oltre mezzo milione di biglietti venduti nel 1952 e più del doppio in Germania.

Quanto all’eroe nazionale – Guglielmo Tell – gli svizzeri gli avevano dedicato un solo film nel 1912 e deve la sua fortuna soprattutto ai tedeschi e agli italiani da Giorgio Pastina (1949) alla Groenlandia del duo Rovere/Sibilia che ne produce una versione proprio quest’anno. In mezzo, tra tante opere minori, un leggendario incompiuto: il film di Errol Flynn girato a Courmayeur nel 1953 per la regia di Jack Cardiff e mai finito per le disavventure economiche del protagonista ormai sul viale del tramonto.

Non ha ragione Orson Welles (se fu lui a dirlo) quando affermava che “In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”; ma è vero che di questo mondo così vicino a noi sappiamo ben poco, oltre i pregiudizi. La sua capacità d’inclusione è conquista recente; la sua xenofobia non si è mai spenta e troppo a lungo il cinema di casa ha guardato altrove tanto che ci è voluta una brindisina, Valentina Pedicini, per ricordare un vero genocidio culturale come quello del popolo Jenisch, perpetrato fino agli anni ’70, ispirandosi alla biografia di Mariella Mehr in Dove cadono le ombre (2017). Capire la Svizzera insomma, terra di mille contraddizioni tra luce e ombra, non è cosa facile. Per questo la finestra locarnese, tradizionalmente aperta al mondo grazie ai cineasti, è ancora molto spesso rivelatrice di un’eccezione e non della normalità.

05 Agosto 2023

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