La giovinezza di ‘Pulp Fiction’, ovvero come Quentin divenne un mito postmoderno

Quarant'anni fa l'anteprima del capolavoro di Tarantino sconvolse Cannes, scopriamo perché è entrato subito nella storia del cinema

La giovinezza di ‘Pulp Fiction’, ovvero come Quentin divenne un mito postmoderno

“Una delle cose che preferisco nel raccontare storie come faccio io, è dare forti emozioni: lasciare che il pubblico si rilassi, si diverta e poi all’improvviso… boom!, voglio trasportarli improvvisamente in un altro film”: Tarantino dixit.

Può sembrare un programma di scrittura stilato da un adepto osservante di Alfred Hitchcock, ma se vogliamo capire perché Pulp Fiction funzioni come una bomba a orologeria e non abbia perso la sua carica dissacratoria in 30 anni di onorata milizia, conviene partire proprio da qui. “Alcuni dei tratti caratterizzanti della pellicola – scrive il celebre critico Roger Ebert -, come la struttura a storie intrecciate e cronologicamente non sequenziale, i dialoghi iper-realisti, una rappresentazione fumettistica dei personaggi e una violenza esplicita ed eccessiva (tesa a suscitare ilarità, a differenza di quanto avveniva in Reservoir Dogs), hanno forgiato un’intera generazione di cineasti e influenzato in maniera evidente la cinematografia”. La struttura delle scene-madri, dei quadri viventi che ci restano immediatamente impressi quando ricordiamo l’opera seconda del regista di Knoxville, oggi sessantunenne, è proprio questa: apparentemente prevedibile e ripetitiva, in realtà ogni volta sorprendente.

Ricordate Vincent e Jules mentre dissertano sulla variante olandese del “Big Kahuna Burger”? Si prendono talmente sul serio che viene voglia di ridere, anche quando Jules comincia a recitare la sua personale variante del Libro di Ezechiele; ma subito dopo parte una carneficina altrettanto priva di senso ma spudoratamente splatter, sicché spinge anch’essa alla risata nel segno dell’ultraviolenza. Non avete certo scordato il lungo corteggiamento di Vince a Mia, la donna del boss, avviato sui passi di un twist e le note di You Never Can Tell di Chuck Berry, ma concluso con la brutale iniezione di adrenalina praticata alla donna da Lance davanti al tremebondo Vince. Oppure la solenne entrata in scena di Mr. Wolf, l’uomo che risolve problemi con la stanca indifferenza di un travet del crimine. E neppure l’improbabile rapina tentata da Zucchino e Coniglietta con cui si avvia il film, sulle tracce di una misteriosa e preziosa valigetta il cui contenuto non conosceremo mai. Per ammissione dello stesso regista quella valigetta è un tipico “McGuffin” hitchcockiano, analogo alle bottiglie di vino in cui Sebastian nasconde l’uranio di Notorius: un puro depistaggio capace di distrarre lo spettatore mentre la tensione si sviluppa altrove, un trucco degno del Sarchiapone di Walter Chiari.

Già nei suoi primi secondi Pulp Fiction si definisce da sé con le didascalie che Tarantino mette in testa al film per spiegare cosa sono i “pulp magazines” e la rivista “Black Mask” (che era anche il titolo di lavorazione amato dal regista): appartiene, appunto, al genere di quei libri a fondo oscuro, impressionante, in altre parole cruento, generalmente stampati su carta ruvida, grezza e fatti per solleticare il gusto del lettore; sono qui i germi di quella tematica splatter che sarà il leitmotiv della poetica di Tarantino. Fonti letterarie di consumo popolare, ma anche un’attenzione al dialogo che fa di Pulp Fiction – come già in Reservoir Dogs – uno spartito verbale che ha in Shakespeare il suo scoperto antenato; citazioni cinematografiche che spaziano dalla gloriosa epoca del Film Noir al B Movie più trash; ascendenti nobili e abilmente occultati dal Kubrick di Arancia meccanica e Shining al cinema di spada giapponese (la katana impugnata dal pugile Bruce Willis), dal montaggio attrattivo in stile Godard (il modello è A’ bout du souffle e la casa di produzione di Quentin si chiama “A Band Apart”) ai vezzi mutuati da Hitch (il cameo auto citatorio del regista in scena, la strada che Butch percorre è Fletcher Drive, all’incrocio con Atwater Avenue, la stessa che fa da sfondo alla fuga di Marion in Psycho), fino all’ormai celeberrimo “stallo alla messicana” in omaggio a Sergio Leone. Insomma siamo alle prese con una scrittura tanto calcolata e raffinata per cui non possiamo limitarci a parlare di questo film solo come di un modello che orecchia al “postmoderno”: Pulp Fiction introduce certamente questa categoria nel cinema e darà la stura a un’infinità di rimandi ed echi generazionali, ma è soprattutto l’opera matura di un fine dicitore innamorato della parola e che usa le immagini con sorprendente maestria per accompagnare una sua vocazione teatrale al fondo irrimediabilmente classica, elisabettiana vorrei dire.

Quando nel 1992 Quentin sbarcò per la prima volta in Italia, da me invitato al Noir in Festival per la “prima” di Reservoir Dogs, veniva da Amsterdam dove si era recluso – in compagnia dell’amico Roger Avary – per scrivere il suo secondo film. Era felicemente impacciato, genuinamente sorpreso dalla cinefilia condivisa di una rassegna tutta dedicata ai suoi grandi amori, sognava di vedere da vicino un maestro come Jules Dassin (ospite d’onore in quell’edizione) e gli spettatori ancora ricordano quel lungagnone un po’matto che parlava a voce alta durante le proiezioni abboffandosi di pizza al taglio e coca cola, finché la sera delle premiazioni scoprirono in lui l’autentica star dell’anno. La stessa scoperta divenne celebrazione due anni dopo sulla Croisette quando il presidente della giuria di Cannes, Clint Eastwood, si alzò in piedi per applaudire platealmente Pulp Fiction cui avrebbe dato – senza discussioni – la Palma d’oro dopo la prima mondiale del 21 maggio. Lì si capì che la storia del cinema girava pagina e che un ragazzo nato nel Tennessee, già commesso in un negozietto di home video, maschera in un cinema a luci rosse, cresciuto a Los Angeles a pane e cinema, stava cambiando la nostra percezione dello spettacolo. Oggi, con alla spalle altri sette film e una co-regia, due Oscar per la sceneggiatura e sempre a un passo dal fatidico decimo titolo (quello che continua a indicare come il suo passo d’addio alla regia), Quentin Tarantino è un Maestro. Ma senza quella notte a Cannes, quando Harvey Wenstein con la sua Miramax fece di Pulp Fiction l’evento dell’anno, forse la storia sarebbe andata diversamente.

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12 Maggio 2024

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