A Gerusalemme tra mito e tragedia

Da 'Exodus' a 'Bye Bye Tiberiade', una viaggio cinematografico nella città simbolo della guerra israelo-palestinese


Gerusalemme, la città delle tre religioni, appare oggi come un puntino rosso nel cuore del dramma tra israeliani e palestinesi. Per capire le radici della storica Intifada cresciuta in Cisgiordania e poi esplosa a Gaza, per guardare senza preconcetti all’orrore dei massacri del 7 ottobre e della brutale risposta militare israeliana nei territori occupati da Hamas, conviene partire proprio dalla città-simbolo di questa faida senza fine. Chi sbarchi oggi tra la Spianata delle moschee, il Muro del pianto, la “cortina di cemento” che adesso separa la città (ingranditasi a dismisura dagli anni ’60 con l’afflusso di immigrati di origine ebraica) dalla vicina Betlemme palestinese, sentirebbe a pelle la crescita della tensione tra i due popoli. E’ la reciproca paura strisciante, l’incertezza che grava come un macigno su ebrei, musulmani, cristiani sostanzialmente presi in ostaggio dai partiti della guerra senza quartiere che guidano Hamas o siedono nel governo di Israele.

Purtroppo per molti decenni la voce dei palestinesi, almeno sullo schermo del cinema, è rimasta muta, per mancanza di strutture produttive, impreparazione artistica, volontà politica di dominatori. Dall’altra parte il cinema di Israele per molto tempo affidava la sua voce a registi stranieri che potevano sostenere la causa dell’indipendenza del  nuovo stato, eleggendo Tel Aviv a capitale della nazione, ma rivendicando già allora la primazia su Gerusalemme, certificata molto più tardi e anche ora oggetto di rivendicazione. Il film-chiave per capire lo spirito degli ebrei di Palestina (molti cresciuti in Terra santa, ma moltissimi giunti in fuga dopo la Shoah) rimane Exodus (1960) di Otto Preminger, dal romanzo di Leon Uris, con il carismatico Paul Newman nei panni del combattente Ari Ben Canaan e John Derek travestito da muktar-capovillaggio di Abu Yesha, che sorge a due passi dal kibbutz di Gan Dafna dov’è cresciuto Ari. Con evidente sforzo conciliatorio il film divide le sorti del soldato Newman da quelle dello zio sionista e terrorista Barak, sostiene fino all’ultimo la volontà di pace tra i due popoli, ma poi si piega alla logica della guerra e insinua che dietro il revanscismo palestinese ci siano anche i superstiti del nazismo. L’orgoglio sionista viene alla fine premiato dalla risoluzione dell’Onu che assegna una parte della Palestina al neonato stato di Israele guidato nel 1948 da Ben Gurion.

Per capire come si vive “dall’altra parte” oggi è illuminante il bellissimo Bye Bye Tiberiade di Lina Soualem, figlia della carismatica interprete Hiam Abbas, che si è visto alle Giornate degli Autori e che inspiegabilmente non ha ancora una distribuzione in Italia. Attraverso le storie di quattro generazioni di donne, il film ci proietta nel cuore di una famiglia palestinese, costretta da decenni alla fuga, all’emigrazione, alla ricerca della propria identità. Non ci sono proclami, non ci sono dichiarazioni politiche o vendicative, ma c’è la realtà quotidiana di una vita vissuta senza patria, con le radici spezzate e senza prospettiva di futuro. Tiberiade, meta turistica della Galilea nel nord di Israele, viene ancora rivendicata dai rabbini come una delle quattro città sante (insieme a Gerusalemme, Hebron e Safad) e anche per questo il nostro spostamento geografico ha un senso preciso, perché connette in modo esplicito due delle terre attraversate dal nazareno Gesù durante la sua predicazione.

Ma per capire quanto sia cruciale anche il ruolo delle immagini nello scenario del conflitto palestinese è necessario registrare la decisione di Netflix di cancellare dalla programmazione la miniserie Fauda, uno dei prodotti più popolari della produzione israeliana fin dal 2015, a pochi giorni dal ferimento a Gaza di uno degli interpreti, l’israeliano Idam Amedi. Si tratta di una scelta che sembra preannunciare una sorta di dubbio antisemitismo che nulla ha a che fare con le ragioni dello scontro in atto e prelude a una sorta di “damnatio memoriae” per tutto ciò che viene dal vitalissimo mondo progressista della cultura ebraica.

Il ruolo del cinema in questa costante ricerca del giusto resta anche per questo fondamentale. Ci dice, per esempio, che nella rappresentazione di Gerusalemme e dei suoi costanti sussulti di violenza, sono stati per primi i registi israeliani a dare risalto alle contraddizioni in cui vivono, sospesi tra un modello democratico occidentale e un tribalismo fondamentalista destinato ad annichilire le ragioni dell’altro. Pensate a Il giardino dei limoni (2008) di Eran Riklis, a Bethlehem (2013) di Yuval Adler o al suo corrispettivo palestinese Omar di Hany Abu-Assad (il regista di Paradise Now) dello stesso anno, a tutta l’opera del più conosciuto tra i registi, Amos Gitai (nato ad Haifa, cresciuto tra Berlino e Gerusalemme) o a quella del suo corrispettivo palestinese Elia Suleiman. Il disagio della cultura israeliana è raccontato in modo ammirevole da Ariel Forman in Valzer con Bashir (2008), un cartone animato (!) ambientato nel cuore di Beirut, alle soglie dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, altro cuore sanguinante della grande faida, oggi tornato all’attenzione della stampa. Un film a cui dà la replica Lebanon (2009) di Samuel Maoz sulla prima guerra del Libano del 1982. Non è forse un caso che le due voci più potenti siano però di due donne: la palestinese Hiam Abbas (qui regista) in Héritage (2012) o l’israeliana Ronit Elkabetz voce narrante di Edut scritto e diretto con il fratello Shlomi nel 2011.

Qualche aggiunta per i viaggiatori nelle piattaforme, con un desiderio di riequilibrio tra opere delle due parti: Jenin Jenin di Mohammad Bakri,  Wahjib di Annemarie Jacir, 200 metri dell’esordiente Ameen Nayfeh e, con un balzo indietro nella memoria, un altro esordio – questa volta italiano nell’ormai lontano 2004– Private di Saverio Costanzo.  “Per un palestinese il cinema è una patria” ha detto l’artista e regista Kamal Aljafari. Serve a capire che oggi, nonostante la Cisgiordania o Gaza, nonostante i campi profughi, per i palestinesi una vera patria ancora non c’è. Ma anche che la contesa su Gerusalemme, città simbolo dell’identità di due popoli, rimane centrale.

Giorgio Gosetti
13 Gennaio 2024

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