Tsui Hark e la leggenda di Hong Kong

Il cinema di Hong Kong è la terza potenza mondiale della celluloide e il regista e tycoon Tsui Hark è la perfetta sintesi di questo miracolo moderno


Sette milioni e mezzo di cinesi vivono in meno di 3.000 kilometri quadrati e fanno di Hong Kong una delle regioni più popolate della terra. Qui batte da più di mezzo secolo il vero cuore del cinema asiatico, tanto inventivo, popolare e smaliziato da essere stato per diversi decenni la terza potenza mondiale della celluloide dopo Stati Uniti e India. Noi associamo questo imprevedibile miracolo a vicende politiche (dalla metà dell’800 fino al 1997 era un protettorato britannico e godeva di una libertà coloniale molto diversa dalla Cina Popolare e da Taiwan), economiche (produrre un film costava poco e, una volta finito, aveva un mercato in costante espansione grazie all’Asia e alle Chinatown di mezzo mondo), artistiche (la fioritura di talenti dagli anni ’70 in poi è stata impressionante). Ma le radici di questo fenomeno sono molto antiche, hanno a che fare con l’idea di una “città libera”, utile come centro finanziario e portuale che piaceva prima agli inglesi e poi ai cinesi – almeno fino alle grandi proteste e alle riforme “centraliste” volute da Pechino nel 2020 -, con una tradizione di studi cinematografici che risale all’inizio del secolo scorso (in costante rivalità con Shanghai), con una abilissima capacità di costante rinnovamento espressivo nel solco di modelli e tradizioni millenarie, dall’Opera cinese alle arti marziali, all’epica patriottica o leggendaria.

Il regista e tycoon Tsui Hark è la perfetta sintesi di questo miracolo moderno: prima di lui il cinema di Hong Kong era soltanto prodotto locale portato fuori dai confini unicamente dal cino-americano Bruce Lee. Quando Tsui Hark appare sulla scena invece tutto sta cambiando ed è con lui che nasce il moderno mito hongkonghese. Di sé sa o dice poco, ammette di non essere certo nemmeno della sua data di nascita, comunque situata tra il 1950 e il 1951. Alcuni lo fanno nascere a Saigon, altri a Canton, di certo cresce nella colonia inglese dal 1966 per poi trascorrere un periodo di formazione in America tra Dallas e Austin. Lavora nella tv cinese di New York, gira filmini in Super8 fin da bambino (proprio come il suo amato Spielberg a cui spesso viene accostato), debutta in patria con una serie tv di arti marziali. Era il tempo in cui gli effetti speciali si disegnavano a mano sulla pellicola (lui importerà invece le tecniche americane), gli attori venivano doppiati in cantonese per essere capiti in Cina e i film avevano i sottotitoli imposti dal Governatore inglese per controllare meglio i contenuti delle storie.

La sua prima regia cinematografica è del 1979 (Butterfly Murders) e coincide con la “nouvelle vague” degli autori di Hong Kong. Tsui Hark infatti, prima ancora che regista, si sente produttore, spesso affiancato da una moglie dal fiuto impareggiabile, Nansun Shi, e sono loro a capire per primi il talento di John Woo (A Better Tomorrow), a centrare un successo internazionale (Storie di fantasmi cinesi) a costruire uno star system rinnovato a partire da Jet Li (Once Upon a Time in China, diretto dallo stesso Tsui Hark). Diversamente da altri, Tsui Hark tiene in gran conto la tradizione epica cinese di cui era maestro indiscusso l’errante Kink Hu di A Touch of Zen (nato a Pechino, si è imposto a Hong Kong, ha viaggiato in Usa per poi approdare a Taiwan) e che da Tarantino (Kill Bill) a Tsai Ming-liang (Good Bye Dragon Inn), da Ang Lee (La tigre e il dragone) a Zhang Yi-mou (La foresta dei pugnali volanti) tutti omaggiano come l’ispiratore principe.

Sarebbe miope restringere il trionfo del cinema di Hong Kong a un solo protagonista; il valore di Tsui Hark sta nell’aver capito in fretta che i modelli cari ai suoi amici (il western di Sergio Leone e di Sam Peckimpah, il thriller di matrice americana e il noir di Jean-Pierre Melville, lo sperimentalismo alla Godard) dovevano saldarsi con la tradizione locale. E qui, oltre al kung fu di Bruce Lee, la parola magica era “wuxia”, cinema di cappa e spada rinato all’ombra dei samurai giapponesi e della letteratura popolare cinese. Geniale maestro della tecnica, smaliziato copista del gusto occidentale, innamorato della tradizione (anni fa voleva incontrare Valerio Massimo Manfredi e girare l’epopea dell’ultima legione romana smarrita in Cina), quest’uomo dai mille talenti ha attirato a sé autori diversissimi da Chow Yun-Fat a Johnny To, da Andy Lau a Tony Leung (l’attore più celebrato dopo aver lavorato con Tsui per la trilogia di Infernal Affairs). Colpito come tutta Hong Kong dalla crisi della Sars all’inizio degli anni 2000 (un momento drammatico per la piccola regione e il suo cinema), si è destreggiato con abilità diplomatica nella crisi post-1997, trovando solidi alleati a Pechino, specie dopo il successo del suo Detective Dee. Il suo marchio di fabbrica è la velocità acrobatica della macchina da presa (l’esatto contrario dell’anche più acclamato talento Wong Kar-way), la sua forza è nella capacità di adattamento che solo di rado si appiattisce in formule ripetitive, il suo talento sta nel mischiare i generi come solo Tarantino – che lo considera un idolo – ha saputo realizzare con una cifra altrettanto personale. Dopo di lui le voci originali che giungono da questa piccola “colonia” piena di energia si sono drasticamente affievolite. La parabola di Hong Kong terra di cinema è giunta alla fine? E’ presto per dirlo, ma l’epopea di Tsui Hark e dei suoi fratelli è ormai leggenda.

Giorgio Gosetti
15 Ottobre 2023

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