Quel giorno a Odessa

Partendo dalla celeberrima scalinata Potemkin di Odessa, un viaggio nella cinematografia dell'Ucraina che racconta un secolo di guerre e rivoluzioni


Adesso che tutto il mondo ricorda l’inizio dell’invasione russa in celeberrima scalinata Potemkin, lo sguardo si volge a Odessa, alla celeberrima scalinata Potemkin, al ricordo di quando quella città sul mare divenne il simbolo di una rivoluzione imminente, nel 1905. Ho scelto di portare qui il mio obiettivo perché tutte le cronache ce la descrivono ancora vitale, ancora orgogliosa del proprio passato nonostante le bombe, il pericolo dell’attacco dal mare, l’incertezza del futuro ogni volta che si guarda lontano, verso la Crimea. Nel mio particolare viaggio cinematografico, Odessa ha ovviamente un posto d’onore e in fondo tutta l’Ucraina che per quasi un secolo è stata la culla del grande cinema russo, nonché della sua identità nazionale.

Questa era la terra di Dov’zenko, capace di ribellarsi a Stalin con il molto osteggiato Ucraina in fiamme e da lì provenivano i primi collaboratori di Pudov’kin ma, prima di loro, alcuni degli artisti che hanno costruito la storia della letteratura mondiale qui erano nati, da Gogol’ a Čechov, da Bulgàkov ad Achmatova. Certo scrivevano in russo, certo facevano parte della Grande Madre Russia, ma la loro appartenenza a una cultura originale e diversa resta oggi patrimonio dell’Ucraina. Ed è guardando ai loro libri e a quei film che si percepisce quanto la guerra in atto abbia riflessi e sfaccettature difficili da capire per chiunque non sia cresciuto con una lingua che non è la sua, abbia studiato libri non suoi, senta le sue radici divise in due. Basta studiare un po’ la storia di questo martoriato paese per capire che anche il suo cinema di oggi porta in eredità un conflitto culturale profondo, una necessità di rivalsa che va oltre le ragioni della propaganda e dell’orgoglio. Fino a due anni fa a Odessa c’era uno dei festival più frequentati dell’Est Europa; a Kharkiv c’era un collettivo di cineasti che destava ammirazione; l’istituto Dov’zenko era un tesoro di archivi audiovisivi purtroppo in parte dispersi anche prima dell’ultimo tragico biennio. La guerra non ha fatto solo morti e distruzioni, ha scavato anche fratture profonde nell’animo della gente. Basta citare il caso eclatante del maggiore cineasta ucraino in attività, Sergei Loznitsa, messo al bando dalla comunità dei cineasti ucraini per… scarso spirito patriottico nonostante i bellissimi film documentari Maidan e Donbass.

La solidarietà internazionale ha dato ampio spazio ai cineasti d’oggi e alla “nuova onda” che, per reazione alle morti e alle bombe, ha usato il cinema come voce potente di libertà e di risposta alla guerra. Abbiamo conosciuto film e registi che altrimenti sarebbero rimasti probabilmente patrimonio di pochi festivalieri accaniti: si sono riscoperti Ivan Kavaleridze e Kira Muratova, restituendoli al patrimonio della loro terra natale; si è applaudita la scrittrice e regista Iryna Cilyk; a cominciato tutto Myroslav Slabošpyc’kyj con il suo meraviglioso The Tribe; e come dimenticare Valentyn Vasjanovyč  e il suo profetico Atlantis che oggi sta nei primi posti della considerazione nazionale. La lista sarebbe lunghissima e sarebbe un errore pensare che la produzione ucraina si concentri su formule istantanee come il documentario o il corto. Fantasia, immaginazione, simbolismo e passione per la terra restano le parole iconiche con cui cercare la vitalità di un cinema i cui primi sperimentatori stavano –all’inizio del secolo – alla scuola di Pudov’kin e appartenevano a quella fantastica generazione delle avanguardie che Stalin avrebbe represso in tutta l’Unione Sovietica. In molti dei lavori più recenti si respira la stessa aria leggera e tragica del cinema armeno o di quello georgiano, altre terre vicine che in momenti diversi hanno saputo esprimere proprio con le immagini la loro volontà identitaria. Parajanov o Isseliani sono modelli a cui il cinema ucraino non può non guardare, tanto quanto ai “mostri sacri” da cui tutto è partito, oltre cento anni fa.

Ed eccoci di nuovo davanti a quella scalinata che fu diretta fonte di ispirazione per Ejzenstein, sbarcato a Odessa per girare solo un episodio di un trionfalistico manifesto della rivoluzione russa, a vent’anni dalla rivolta e dal massacro del 1905. Tornò a Mosca con uno dei capolavori che avrebbero scritto la storia del cinema. Così ne parlava il regista: «”Fu proprio la scalinata con il suo ‘movimento’ a suggerire l’idea della scena e a provocare, con la sua fuga, la fantasia del regista, dando origine a una nuova ‘forma a spirale’.”. Anni dopo precisò la sua idea di cinema racchiusa in quella memorabile sequenza che avrebbe finito a ispirare perfino…Fantozzi: “Quando si parla del Potëmkin si osservano in genere due aspetti: l’unità organica della composizione nel suo complesso, e il pathos del film… Il Potëmkin sembra una cronaca (o cinegiornale) di avvenimenti, ma in realtà colpisce come il dramma. E il segreto di questo effetto consiste nel fatto che il ritmo della cronaca si adatta alle leggi rigorose della composizione tragica; e, più ancora, della composizione tragica nella sua forma più classica: la tragedia in cinque atti…”. La carrozzina, i fucilieri dello Zar, i gradini, i primi piani “a schiaffo” delle donne in lacrime o morenti, il volto del bambino collocato secondo la legge del montaggio per attrazione: tutto ruota come in un vortice di emozioni che ha il passo solenne della classicità, ma introduce tutto il movimento contemporaneo del cinema. Se guardiamo ai reportage attuali e li confrontiamo con quella ormai antichissima sequenza, capiamo che la forza del cinema non ha eguali: sintetizza, colpisce al cuore, diventa mito e monito insieme.

E capiamo quanto poco il cinema– che pure anticipava l’orrore degli eventi – sia riuscito a farsi ascoltare da un’umanità incapace di reprimere la sua “bestialità”, in nome dell’avidità, dell’idiozia, della volontà di potere che una volta di più vince sull’”umanità”.

 

Giorgio Gosetti
03 Marzo 2024

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