Giada Colagrande: “Dal lutto un’occasione di risveglio”

A Pesaro abbiamo incontrato la regista che ci ha parlato di Padre, interpretato da Franco Battiato, Willem Dafoe e Marina Abramovic


PESARO – Un film iniziatico, a prima vista spiazzante, che nasce da uno spunto del tutto personale, come la morte del padre, per affrontare il tema della compresenza tra i vivi e i morti, il concetto filosofico del tempo, la “via” verso la consapevolezza.

Giada Colagrande torna allo stile raccolto e intimo della sua opera prima, Aprimi il cuore (2001), con un film girato in gran parte all’interno di un appartamento romano e in cui riveste tutti i ruoli, dalla scrittura alla regia a quello della protagonista. Giulia, una giovane donna che ha perso l’amato padre, Giulio, grande musicista, appassionato alla tradizione dei Dervisci (lo interpreta Franco Battiato, che mette tutto se stesso nel personaggio). Mentre lavora insieme all’amico e regista James (Willem Dafoe) a un testo teatrale costruito come un’antologia di monologhi e performance femminili, Giulia, che vive sola con un gatto, comincia a percepire una presenza misteriosa. Intanto dialoga via skype con la madre (Marina Abramovic) e attinge alla biblioteca del padre alla ricerca di una verità sfuggente.

Strutturato in sette parti, introdotte da versi esoterici (“La calma interiore scinde l’essenziale dal superfluo”, “Si deve poter vedere spiritualmente, per divenire consapevoli del mondo invisibile”, “Finché si oppone loro un sentimento, le entità del mondo superiore tacciono”…), Padre, prodotto da Gaia Furrer e con tante apparizioni di amici della regista abruzzese, è il quarto lungometraggio di un’autrice anticonformista che abbiamo avuto modo di incontrare alla Mostra di Pesaro, in occasione dell’Evento speciale dedicato alle donne del cinema italiano.

Il film ha avuto un percorso eccentrico, è del 2016 ma uscirà in Italia solo a ottobre di quest’anno con la Open Reel. Come mai?

Visto l’argomento così personale per me e per Franco Battiato, abbiamo deciso di comune accordo di proteggerlo. Sicuramente è il mio film più intimo nel senso spirituale, anche perché affronta l’elaborazione del lutto. E c’è tanto di Battiato: i suoi quadri, la sua musica, lui stesso come attore.

Temevate che non fosse compreso?

È stato il primo film in cui me ne sono fregata di come sarebbe stato accolto, perché è totalmente al di fuori del sistema dei media. L’avevo fatto vedere al critico e studioso spagnolo Chema Prado, che mi ha consigliato di presentarlo al Festival di Morelia in Messico, un festival diretto da una donna super cinefila. Me ne aveva parlato molto bene anche Carlos Reygadas, un autore che stimo moltissimo. Poi in Messico il dia de los muertos è la festa nazionale. Se parli a un italiano della morte, fa gesti scaramantici, mentre per i messicani è un tema bello, commovente, importante. In Italia è stato visto solo a Lucca l’anno scorso, in occasione della mia prima retrospettiva, e ora a Pesaro.

E’ un film di fantasmi in piena regola, anche se sconfessa la tradizione horror innestando nel genere un discorso esoterico. Qui gli spettri non fanno più paura, ma diventano presenze calde, amichevoli e curative. Come nasce questo progetto?

Alla Festa di Roma del 2016 riproposero al pubblico Aprimi il cuore, confesso che, dopo averlo rivisto, parlai a lungo con Gaia Furrer, una cara amica, e lei mi invitò a fare un altro film come quello, “perché altrimenti una parte di me sarebbe rimasta inespressa”. Una donna A Woman, il mio lungometraggio precedente che è del 2010, era, per i miei standard, un filmone e comunque girato all’interno di un sistema. Il mio prossimo film, Tropico, che girerò in Brasile, avrà un budget serio. Però tornare a lavorare in modo completamente indipendente è stato bellissimo e mi ha dato molto. E poi questo film l’avevo sognato.

In che senso?

Dopo aver parlato con Gaia, quella sera, ho fatto il primo sogno: mi chiamavo Giulia, avevo appena perso il padre, un compositore, mentre il mio vero padre era uno scienziato, e questo padre aveva il volto di Battiato. La seconda notte ho fatto un sogno consecutivo e allora ho capito che stavo vedendo un film. La cosa è andata avanti per un mese, quasi tutte le notti. Quando ne ho parlato con Battiato, che considero un maestro, lui si è entusiasmato, altrimenti non avrei osato chiedergli di partecipare. Abbiamo preparato tutto in un mese e girato in tre settimane.

Come ieri, ai tempi di Aprimi il cuore, un film fatto in casa, con le persone care, che oggi però sono artisti del calibro di Marina Abramovic e Franco Battiato.

È vero. Ma comunque abbiamo lavorato senza budget, durante le vacanze di Natale. L’unica cosa che ho pagato sono stati i pranzi sul set.

Alla storia di fantasmi e dell’iniziazione di Giulia, si affianca l’allestimento di una pièce teatrale in cui vengono citate tante figure simboliche femminili, dalla coreografa Ruth St. Denis alla regina Cristina di Svezia alla compositrice Lili Boulanger.

Mentre scrivevo stavo elaborando la perdita di mio padre, e quando si affronta la morte di una persona cara c’è una sorta di risveglio. In tutte le tradizioni esoteriche si parla della morte come occasione di rinascita, di svelamento della vera natura delle cose, della realtà interiore quanto esteriore, della presa di coscienza che i confini non sono così definiti. Nel frattempo, ero sempre a contatto con l’arte, le letture, le musiche, di cui non mi privo mai, e ho trovato un modo per mettere in scena queste suggestioni artistiche. Tutte le figure femminili che mi hanno ispirata in quel periodo sono finite nel film.

Il film è diviso in sette capitoli scanditi da epigrafi.

Vengono da un celebre libro di Rudolph Steiner L’iniziazione del 1904, che è quasi un manuale del percorso iniziatico che ti apre al mondo invisibile. Ho cercato così di sintetizzare il mio cammino in quel momento. Ci sono state delle singolari anticipazioni, delle esperienze catartiche legate alle riprese di Padre.

Nel libro We Want Cinema, lei ha affermato di non sentirsi femminista in senso politico ma in senso spirituale. Cosa intende?

Sono molto interessata al tema della dea madre e agli argomenti legati al femmineo, mi interessa l’aspetto storico ma ancor più quello spirituale, tramandato fin dal neolitico, quando c’erano società matrilineari in cui il centro della comunità era la donna, la sciamana, una figura che oggi racchiuderebbe in sé, in un piccolo paesino, il sindaco, il prete e il dottore. In tante tribù che non avevano alcun contatto fra loro, si adorava la dea madre. Da lì in poi il divino femmineo è stato spazzato via. Ci sono ancora pochissimi baluardi che hanno resistito a queste invasioni sociali e politiche patrilineari, qualche tribù indigena, per esempio una fuori Panama che ho visitato. Resistono alla civiltà occidentale. Comunque, quando il femmineo domina o quantomeno è paritario, come nelle società gilaniche, non ci sono le guerre. Questo è un fattore antropologico e spirituale molto prima che politico e sociale, che parte dal riconoscerci come esseri spirituali incarnati in corpi fisici e non viceversa come umani e terreni con una dimensione spirituale.

Come si è posta rispetto ai movimenti delle donne nati quest’anno sull’onda dello scandalo Weinstein?

Non mi sono collocata ufficialmente, anche perché non sono stata interpellata. Trovo che sia un bene che qualcosa accada e spero che questo cambiamento non sia temporaneo. Ma al momento mi lascia perplessa il fatto che continui a vigere la corruzione. In America molti personaggi sono stati fatti a pezzi, ma Trump è in sella. Temo che gli uomini che hanno un potere reale l’abbiano fatta franca, pagando e mettendo a tacere. Invece occorrono una vera pulizia e una vera giustizia. Ma questo naturalmente non ha nulla a che fare con le vittime che hanno fatto benissimo a denunciare le molestie e che devono avere giustizia.  

Cristiana Paternò
28 Giugno 2018

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