Sergio Castellitto: “Penelope come Marcello, docile ma non servile”

L'attore e regista, che al Festival di Locarno ha ricevuto il Pardo alla carriera, rievoca i più bei momenti della sua carriera. Tra questi l'incontro con Mastroianni e il colpo di fulmine con la Cruz


LOCARNO – È stata una pioggia torrenziale a battezzare il secondo giorno del Festival di Locarno e annunciare l’arrivo di uno degli ospiti italiani più attesi, Sergio Castellitto, al quale questa sera in Piazza Grande sarà consegnato il Pardo d’Oro alla Carriera. Ma il cattivo tempo non ha scoraggiato il pubblico che si è ritrovato numeroso sotto i tendoni dello Spazio Cinema, dove l’attore e regista ha ringraziato il direttore Carlo Chatrian per il prestigioso riconoscimento e ha raccontato la sua variegata esperienza artistica, che a partire dal teatro “dai due anni di Accademia dalla quale poi sono scappato”, ha ammesso con fierezza, lo ha portato a lavorare al cinema con diverse generazioni di cineasti, a voler stare a sua volta dietro la macchina da presa, a legare il proprio nome a quello di alcune importanti personalità del panorama artistico internazionale, come Jacques Rivette o Penelope Cruz, a trovarsi ormai alla soglia dei sessant’anni (li compirà il prossimo 18 agosto) ancora con una gran voglia di “sperimentare” e “lavorare su se stesso”. “Alla mia età si può essere ancora potentissimi, in tutti i campi – ha dichiarato l’attore – l’importante è non cadere nella trappola di rifare sempre le stesse cose, o quelle che gli altri si aspettano, di sclerotizzarsi su delle formule o su dei personaggi, di diventare, insomma, un monumento”.  

Come dire che per conservare il successo bisogna rimanere inquieti?
Beh, nel mio caso sì, io ho sempre avuto bisogno del panico, dell’ansia di non farcela per sentire che ero su una strada giusta, che poteva venir fuori qualcosa di buono. Una sensazione che io chiamo “la febbre” e che mi ha permesso di dare sempre il meglio di me in tutte le esperienze che ho fatto, e mi ha aiutato a rimanere sempre uno “studente” senza diventare mai un “professore”. Poi è anche vero che ho fatto degli incontri molto fortunati perché sono stato uno dei pochi della mia generazione a cominciare dal meglio, dai grandi maestri del cinema italiano: Francesco Rosi, Mario Monicelli, Ettore Scola, Marco Ferreri che mi hanno trasmesso tanto sia come attore sia come regista. Poi sono arrivati i registi della mia generazione, come Giuseppe Tornatore e Francesca Archibugi, i fratelli maggiori: Marco Bellocchio e Gianni Amelio e quelli minori, come Paolo Virzì. E credo che anche in quel caso i film meglio riusciti fossero quelli in cui il regista stesso viveva una specie di conflitto con se stesso con la paura di non riuscire. Emblematici in questo senso per me sono stati, Il grande cocomero e L’uomo delle stelle, nati appunto, da un momento di crisi vissuta anche da chi stava dietro la macchina da presa.

Ma parlando ancora degli esordi, com’è che è finito a fare l’attore? Lei, tra l’altro proveniva da una famiglia molto tradizionalista per la quale accettare di avere un figlio con questa ambizione non deve essere stata una cosa facile…
No, infatti, non fu facile per nulla. Mia madre dopo i primi film, grazie ai quali avevo avuto già un discreto successo ebbe il coraggio di chiedermi: “beh, adesso che ti sei tolto questo sfizio, quand’è che ti trovi un lavoro?”. Però io nonostante la paura, che mi ha eternamente accompagnato in questo mestiere, non ho mai pensato di smettere. E ho iniziato, non, come dicono in tanti per fare i modesti, “perché sentivo il desiderio di comunicare”, al contrario, io volevo essere ascoltato, volevo apparire, forse riempire in qualche modo una mancanza affettiva. Così mi sono buttato e anche grazie alle persone che ho incontrato sulla mia strada ho capito che ce la potevo fare, che potevo crescere all’interno di un mondo che poi effettivamente mi ha permesso di esercitare più professioni.  

Perché è fuggito dall’Accademia d’Arte Drammatica?

Perché le scuole servono e non servono. Il talento se ce l’hai devi scoprirlo da solo. Spesso nelle accademie di recitazione ti insegnano un sacco di cose inutili, che poi soprattutto se ti metti a fare il cinema puoi buttare dalla finestra. La cosa positiva però è che in questi luoghi si concentrano le aspettative e spesso dai tuoi colleghi puoi assorbire molto di più che dagli insegnanti.  

Parlando di colleghi, lei, sempre all’inizio, ne ha avuto subito di illustri, come Marcello Mastroianni, com’è stato l’incontro con lui?
Ci siamo conosciuti sul set de Il generale dell’armata morta, di Luciano Tovoli. Io ero al mio terzo film e, ovviamente ero agitatissimo perché mi trovavo anche al fianco di una altro mostro sacro, Michel Piccoli. Io facevo un ruolo piccolo, quello dell’esperto albanese, e mi ricorderò sempre che una volta ci trovammo a girare una scena in cui io avrei dovuto far scendere una medaglietta davanti al viso di Mastroianni. Il campo era strettissimo su di lui e in quel momento si sarebbe dovuto vedere solo questo oggetto, appunto, che gli scendeva dall’alto davanti al volto. Bene, fu battuto il ciak e io però avevo il braccio e dunque la mano che tremavano. E non riuscivo a smettere. A un certo punto però, forse poco prima che il regista si fermasse per farmela ripetere, sentii fuori campo una mano che mi teneva fermo, con forza, il gomito. Mi voltai e vidi che era lo stesso Mastroianni, che mentre recitava mi stava aiutando a far scendere bene quella maledetta medaglietta. Ecco questo è un ricordo bellissimo che ho di lui. Era un attore generoso, che lavorava non per dimostrare di essere il più bravo ma perché il lavoro finale fosse il migliore possibile. Credo che De Oliveira abbia dato di lui una delle definizioni più giuste in assoluto. Quella che dovrebbe valere per chiunque faccia questo mestiere. Diceva infatti che “era un attore docile, ma non servile”.

E fra i registi della “vecchia guardia” del cinema italiano quali sono quelli che le sono rimasti più nel cuore?

Certamente Marco Ferreri ed Ettore Scola. Il primo era un gigante. A vederlo così sul set sembrava sempre che fosse capitato lì per caso, in attesa della pausa pranzo. Invece era attentissimo. Non stava mai davanti alla macchina da presa e solo dopo un po’ ho capito perché: la vera macchina per lui erano i suoi occhi. E per questo motivo si posizionava sempre in punti diversi rispetto alla camera. Marco mi ha insegnato tanto anche se se n’è andato troppo presto. Credo che nei miei film da regista ci sia sempre il mare perché lui lo amava molto e compariva spesso anche nelle sue pellicole. Di Scola invece, anche se in senso buono, ho sempre avuto un certo timore. Con lui ho girato La famiglia e Concorrenza sleale. Sul set del primo film avevo una parte molto piccola e però recitavo con Gassman. Io ero l’ultimo dei nipoti e lui il nonno. Ricordo ancora che in una scena si trattava di suonare il campanello e rifarmi vivo a casa appunto di questo nonno che non vedevo da molto tempo. Non avevo battute. Dovevo solo suonare e rimanere fermo ad aspettare la reazione di Vittorio. Scola batte quindi il ciak ed io entro in azione. Solo che quando Gassman apre la porta mi accorgo di non sapere dove mettere le mani. E in realtà non riuscivo a reggere il silenzio e lo sguardo di chi avevo davanti, così, non so come mi uscì, dissi: “Eccoci qui”. Battuta ovviamente non prevista che suscitò lo stupore e credo anche il fastidio di Gassman. Non altrettanto fu per Scola però che subito diede lo stop e mi chiamò vicino a sé – io già pensavo che sarei stato protestato – e mi disse: “Bravo, mi è piaciuta questa cosa che hai detto. Era quello che mancava a questa scena, l’imbarazzo…”  

Prima e durante la sua carriera di regista c’è stata anche la televisione, che le ha permesso di lavorare su tantissimi personaggi seguendo soprattutto il filone delle biografie…
Sì, devo dire che non mi sono fatto mancare nulla. E che i personaggi che ho interpretato sono stati sempre molto diversi fra loro. Basti pensare che ho recitato nei panni di Don Milani, che è il simbolo della razionalità in campo religioso, così come in quelli di Padre Pio, che rappresenta il mistero, qualcosa che ancora adesso è oggetto di discussione fra i credenti. E tra l’altro proprio nell’anno in cui ho lavorato nella fiction su Padre Pio ho girato L’ora di religione con Marco Bellocchio… Per me non c’è differenza fra cinema e televisione, ma solo fra prodotti fatti bene o fatti male.  

E poi c’è stato il cinema visto dall’altra parte, il salto verso la regia…
E’ stata un’esigenza quasi naturale. Come dicevo, a me piace conservare quel brivido, quel senso di sfida che non ti fa mai sentire arrivato. Così nel 1999 ho esordito come regista con Libero Burro, una commedia in cui ho cercato di inserire tutto quello che avevo imparato dai grandi della commedia all’italiana con cui avevo lavorato. Soprattutto ho lavorato sugli elementi tragici che, se messi nei punti giusti, rendono vera una commedia. Cosa che ho fatto anche ne La bellezza del somaro. Invece con Non ti muovere e Venuto al mondo il processo è stato il contrario: il melodramma che nel suo collegarsi alla vita reale lasciava posto anche a dei momenti più leggeri.  

Non ti muovere segna anche il suo sodalizio artistico con sua moglie Margaret Mazzantini e l’attrice spagnola Penelope Cruz con le quali lavorerà anche per Venuto al Mondo. Qual è il segreto di questo affiatamento?
Per quanto riguarda Margaret, sembrerò banale, ma è l’amore. Noi ci conosciamo e ci amiamo da più di vent’anni. Anche lei infatti faceva l’attrice e ci siamo infatti conosciuti lavorando in teatro, a Genova. Poi quasi subito lei ha capito che la sua strada era quella della scrittura e nonostante tutto non ci siamo mai persi. Anzi seguendoci sempre da vicino siamo arrivati a lavorare insieme con splendidi risultati, poi i suoi libri hanno una struttura molto cinematografica. Per Non ti muovere fu lei a darmi l’input. Mi disse: “Facciamolo diventare un film. Prendi le pagine che ti servono e il resto strappalo”. Insomma una bella responsabilità ma anche una grande fiducia e una libertà che mi hanno permesso di arrivare a quello che io giudico il mio film più riuscito. Per quanto riguarda Penelope invece, anche quello è stato un colpo di fulmine, da parte di entrambi. Lei con quel film ha dimostrato al mondo di essere un’attrice straordinaria, in grado di trasformarsi in qualunque cosa. Anche lei è stata come De Oliveira diceva di Mastroianni: “docile ma non servile”.  

E la Francia? in questa perenne corsa a cercare nuove sfide lei è stato attore anche per una delle icone del Nouvelle Vague francese e in generale del grande cinema europeo Jacques Rivette. Com’è stato lavorare con lui?
È stato fantastico. Ho lavorato anche con altri registi francesi, ma con lui ho davvero imparato moltissimo. Per il primo film, Va savoir, io interpretavo un regista che metteva in scena Pirandello e quindi c’erano scene vere della pièce e lui volle che fossi io a dirigerla. Disse: “Il regista nel film sei tu, quindi gli attori dello spettacolo li dirigi tu”. Fu incredibile. Feci quello che mi disse e ogni tanto però non resistevo alla tentazione di chiedergli se secondo lui andava bene quello che stavo facendo. La risposta era sempre la stessa: “Je ne sais pas” (non lo so). Ed effettivamente aveva ragione. Ero io che dovevo dargli il mio punto di vista. L’unico giusto, credo, secondo lui. 

08 Agosto 2013

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