Massimo Popolizio: “Falcone, Borsellino e il maxiprocesso”

L'attore è protagonista, insieme a Beppe Fiorello, di Mille volte addio di Fiorella Infascelli, su un episodio cruciale nella vita del magistrato antimafia


Incontriamo Massimo Popolizio a Milano, al Teatro Strehler dove l’attore è impegnato con le prove dello spettacolo Lehman Trilogy di Luca Ronconi che debutterà il 29 gennaio 2015 al Piccolo Teatro Grassi, diviso in due parti: Tre fratelli e Padri e figli, per un totale di quasi 6 ore di spettacolo e che in alcune date verrà rappresentato nella sua totalità. Niente a che vedere con Margin Call di J.C. Chandor, il film sulla caduta della Lehman Brothers, piuttosto la narrazione dei destini di una famiglia di immigrati alla ricerca del sogno americano, evidentemente infranto. Un buon momento per Popolizio, recentemente è stato Sindona nella fiction Rai Qualunque cosa succeda, è ancora al cinema con Il ricco, il povero e il maggiordomo di Morgan Bertacca, nei panni di un buffo prete al fianco di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ha contribuito allo strepitoso successo de Il giovane favoloso di Mario Martone interpretando Monaldo, il padre di Giacomo Leopardi. Senza dimenticare quel ruolo da dispensatore di botulino ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Inoltre, Popolizio ha appena finito di girare Mille volte addio, diretto da Fiorella Infascelli dedicato al soggiorno obbligato di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che nel 1985 rimasero nascosti per 25 giorni con le famiglie nella “casa rossa” sull’isola dell’Asinara, impegnati a scrivere la sentenza per il primo maxi processo a Cosa Nostra. Nel film, prodotto da Fandango e Rai Cinema con il sostegno della Sardegna Film Commission, Popolizio è Giovanni Falcone.

Una grande responsabilità interpretare Giovanni Falcone, eroe suo malgrado insieme a Paolo Borsellino (interpretato da Giuseppe Fiorello). Come vi ha diretto Fiorella Infascelli?

Inizialmente, solo all’idea di andare a toccare un mito come Falcone, mi tremavano i polsi. Per fortuna abbiamo lavorato soltanto su un breve, e importante, periodo della loro vita: quando Falcone fu prelevato dalla Procura di Palermo e Borsellino da una festa, per essere trasportati in gran segreto sull’isola dell’Asinara, allora sede del super carcere. Abbiamo girato nella foresteria a picco sul mare, la stessa in cui Falcone e Borsellino restarono in isolamento per 25 giorni, e qualche scena nel super carcere, dove allora era rinchiuso Raffaele Cutolo. Abbiamo cercato di immaginare cosa significasse vivere senza avere la percezione dell’orizzonte, con la presenza costante di 12 uomini della scorta, che rendevano difficile la visione dell’orizzonte, persino su un’isola. Luogo che ha inciso parecchio sulla loro quotidianità in quelle lunghe giornate, costretti all’abitazione coatta con le proprie famiglie. E la paura di essere stati fregati, allontanati per far saltare il maxi processo.  

Qualche scena del film?
In molti momenti vediamo al lavoro questi due uomini di carta e di penna, in un ufficio da cui si scorge solo mare e sole. Sempre in giacca e cravatta; ma li vediamo anche in pochi momenti di distrazione nell’acqua celeste dell’isola. Scene girate in ottobre, restando molto tempo a mollo nel mare.

Come ha studiato il personaggio?
Un po’ come sempre. Non credo alla metamorfosi fisica, che fa molto fiction. E ancora di più in questo caso non era importante la somiglianza fisica, ma era lo spirito. Ho letto tutti i libri di Falcone, molti di quelli scritti su di lui e quelli sul maxi processo. Il mio personaggio vive di riflesso con l’altro. Beppe Fiorello ed io siamo la faccia della stessa medaglia, nelle scene insieme non esistiamo da soli. Abbiamo cercato di non fare due icone, ma di rappresentare due uomini in totale sintonia tra loro su quegli argomenti, entrambi ossessionati dal raggiungere il loro obiettivo comune.

A proposito di sintonie tra personaggi, lavorare con Elio Germano deve essere stato un po’ differente. Monaldo, il padre di Giacomo Leopardi, era un uomo severo e pressante da cui il giovane favoloso cercava di staccarsi.
Martone mi ha aiutato molto a interpretare un padre che non fosse solo autoritario e possessivo. Siamo riusciti anche a far passare l’amore che lo spingeva verso il figlio, attraverso dei piccoli gesti quasi materni. Questo padre che a tavola gli taglia la carne o che lo aiuta a fare pipì, con un’aspettativa continua che finisce per rinchiudere Giacomo in una gabbia, da cui scapperà. 

Dopo La Banda dei Babbi Natale di nuovo con Aldo, Giovanni e Giacomo. Divertente?
Ne Il ricco, il povero e il maggiordomo sono Amerigo, il parroco dell’oratorio in cui Aldo allena la sua squadra multietnica di ragazzini, ai quali vorrei far solo recitare il Padre Nostro. Divertente e non semplice, con loro il testo è sempre un canovaccio. Tutto quello che succede in scena lo determinano loro in modo preciso, come fossero orologini. Si attaccano a qualsiasi cosa stimoli la loro improvvisazione, in uno sviluppo continuo di gag, mai fine a se stesse. E’ fondamentale adattarsi, a proposito di sintonia.

E con Paolo Sorrentino?
Prima Il Divo, poi La grande bellezza. Paolo Sorrentino è un talento puro. E’ un grande anche nel dirigere gli attori, con cui ha un rapporto molto particolare: quando sei sul set lui ti osserva, ti fa fare piccole cose. Per quasi tutta la scena del chirurgo plastico, avevo Paolo che mi suggeriva un percorso da seguire, parlandomi a fianco. Se lo segui sai che ti porterà verso un obiettivo, sai che sa perfettamente dove vuole arrivare e non sono tanti che sappiano dirigere così ogni sfumatura del set.

E l’Oscar?
Sono molto contento perché è stato vinto da un gruppo di attori che fa teatro attivamente. Dopo anni che gli attori teatrali, come me, sono stato messi in una sorta di recinto che non permetteva loro di fare cinema. Adesso è molto diverso e questa è un’ulteriore conferma del cambiamento.    

23 Dicembre 2014

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