Come direttore della fotografia ha collaborato con importanti registi italiani: Io capitano è la sua prima volta con Matteo Garrone. Come è nata?
Matteo è senza ombra di dubbio uno dei registi più creativi del panorama italiano e internazionale, da anni seguo il suo lavoro. Ho sempre ammirato i suoi film e ho sempre sperato ci fosse un giorno in cui avrei potuto collaborare con lui. Ed è arrivato con una sua telefonata, nell’ottobre del 2021: mi ha chiesto la disponibilità a leggere la sceneggiatura e poi a incontrarci, e io sono stato felicissimo perché in quel periodo ero fortunatamente disponibile. E poi ho cominciato a entrare nel suo mondo, affascinante. La cosa più importante che mi rimane di quel primo incontro è la sua netta, chiarissima decisione di fare un film semplice, che fosse un film per tutti, di non raccontare solo ed esclusivamente la durezza dell’esperienza del viaggio, ma di fare un film che racconti il desiderio dei giovani africani di viaggiare e di conoscere il mondo che gli è negata dalle attuali leggi, che impediscono ai giovani di tantissimi Paesi africani di avere dei semplici visti turistici. Il film doveva essere anzitutto un’avventura e allo stesso tempo un racconto di formazione.
Per quel che riguarda il suo ruolo specifico, avete parlato subito di un particolare stile visivo che Garrone cercava – o aveva già in testa – per Io capitano?
Si è andati ad intuito, come io spesso faccio. Il primo passo è cercare di capire qual è l’idea del film che ha il regista. Io me ne sono fatta una, lui ha smontato in quel primo colloquio una serie di stereotipi che io avevo in testa, del film aspro, dall’aspetto duro e documentaristico, e mi ha portato in un altro mondo, che è quello della narrazione pura, del racconto anche romanzesco. Poi abbiamo fatto i sopralluoghi: li abbiamo cominciati nel 2021 e li abbiamo conclusi nel 2022, e sono stati sopralluoghi affascinanti. Anche se io in parte avevo già girato in Marocco e anche nel deserto per ZeroZeroZero (serie tv USA di Stefano Sollima, ndr), però in Senegal non ero mai andato, e ho scoperto un mondo. Quando faccio i sopralluoghi faccio tantissime fotografie, inerenti al film e non, mi servono per bloccare nel tempo e ricordare le mie emozioni visive … Con Matteo poi abbiamo rivisto le immagini, quelle che avevo scattato io e anche le sue, con le sue suggestioni… E gradualmente, in maniera molto intuitiva e per fortuna poco intellettualistica, abbiamo cercato di trovare uno sguardo comune, in estrema libertà. Matteo è sempre molto vicino alla macchina da presa. Lui in tanti suoi film ha fatto anche l’operatore alla macchina, in questo film no. Stavolta l’operatore è stato Matteo Carlesimo, uno straordinario e sensibile operatore steadycam, Matteo Garrone nei suoi film ha sempre usato tantissimo la macchina a mano, in Io capitano ha cercato di avere uno sguardo più dolce, meno brusco, meno o possibilmente mai documentaristico. Abbiamo girato moltissimo usando la steadycam, che è un occhio che si muove liberamente, ma che ha anche la dolcezza di un respiro non convulso. E abbiamo cercato insieme, in tre, di comporre le inquadrature, e io di costruire o catturare le giuste atmosfere del film. Cercando i colori di Dakar, la grande luminosità del deserto, e infine il grande vuoto del mare. Tutto questo abbiamo cercato di viverlo con lo sguardo dei due ragazzi, Seydou e Moussa. Il punto di vista che abbiamo cercato di avere, l’emozione che abbiamo cercato di raccontare, è sempre la loro emozione.
L’intensità incredibile dei colori e delle dominanti arancio, blu, di questa storia: dai toni del villaggio senegalese, fino al deserto e al mare… hanno influito sul suo approccio alla fotografia?
In realtà io non ho fatto nessuna elaborazione violenta alle immagini. Insieme abbiamo cercato di raccogliere dalle realtà bellissime e fortissime che avevamo davanti, gli elementi più forti, i più adatti a ad ogni frammento del nostro racconto. La realtà in qualche modo ha fatto molto da sola, e noi abbiamo fatto quello che fanno i bravi fotografi: ne colgono “il succo”, non la superficie, vanno più in profondità, questo abbiamo tentato di fare. Io ho un passato di fotografo, amo molto anche la fotografia e i fotografi, e dal mio bagaglio di esperienze professionali ho cercato di tirare fuori questo aspetto. Lo stupore del viaggio è l’elemento fondamentale: consideriamo che Matteo Garrone gira in sequenza, ovvero inizia le riprese con la scena numero uno e finisce con la scena numero cento e più. Abbiamo iniziato le riprese a Dakar , abbiamo affrontato il deserto, il centro di detenzione, la città e finito il film di fronte al porto di Marsala, in una barca, con l’elicottero della Guardia Costiera che volteggiava sulle nostre teste. E questo ha permesso ai nostri due protagonisti di fare il loro primo viaggio fuori dal Senegal, esattamente seguendo il percorso che avrebbero fatto se avessero fatto “il viaggio” dei migranti, di viverlo con lo stupore che si può immaginare per dei ragazzi che uscivano dal loro Paese e facevano il viaggio con noi, e a noi di viverlo con i loro occhi. Sono stati meravigliosi, sia Seydou che Moustapha, siamo diventati amici, e chiaramente abbiamo cercato tutti di creare l’atmosfera migliore per farli sentire liberi di esprimere le loro emozioni. E Matteo li ha guidati con sensibilità e con grande fermezza.
Ho già chiesto sia a Dimitri Capuani che a Matteo Garrone se e quali fossero stati i loro precisi riferimenti artistici, più o meno coscienti, nel creare le scene e le atmosfere di questo racconto. Lo chiedo anche a lei.
Igrandi fotografi, come ho già accennato: oscillavo tra un grande maestro che ho avuto e con cui ho collaborato, Ernst Haas, fotografo della agenzia Magnum, per il colore, e nella composizione, nei grandi totali, nel rispetto del mondo,anche se lui fotografa in bianco e nero, a Sebastião Salgado. Questi sono stati i lontani e profondi punti di riferimento che ho cercato dentro di me, che mi sono portato insieme alle mie precedenti esperienze. Ho lasciato un po’ il cinema da parte… E poi c’è lo sguardo onirico di alcune sequenze che abbiamo girato, e la mia capacità di entrare in contatto con lo sguardo di Matteo. In questo senso il percorso di conoscenza è stato particolarmente forte: piano piano, con rispetto ho cercato di capire qual è il mondo creativo di questo straordinario artista che è Matteo Garrone, che costruisce e gestisce il film in totale rapporto con la sua creatività e con quella degli altri. Ed è disposto a cambiare radicalmente anche il piano di lavorazione, l’idea della sequenza, la location all’ultimo momento. La duttilità che è stata chiesta a me, a Dimitri Capuani, a Stefano Ciammitti, a tutta l’equipe di produzione è la duttilità di chi capisce che improvvisamente potremmo decidere – nonostante abbiamo preparato quella location – che invece c’è un posto migliore per girare e che allora bisogna cambiare, per il film. Se ci appare davanti agli occhi un’occasione non dobbiamo perderla, la rigidità della lavorazione del set non deve bloccarci, bisogna cercare sempre di mantenere la porta aperta all’improvvisazione, tenendo conto che Matteo è un regista di livello internazionale, e la qualità del racconto per immagini deve essere sempre molto alta.
Quindi non c’è stato quasi bisogno di alcuna color correction in post-produzione?
Io intervengo molto in fase di ripresa. Questo vuol dire, ad esempio, che abbiamo girato alcune sequenze in una strada centrale della medina di Dakar, dove c’è un grande mercato. Questo mercato di notte continua in parte a vivere, ed è in una strada molto colorata, illuminata con dei vecchi fanali al sodio molto caldi. Quando abbiamo fatto i sopralluoghi prima del Natale 2021, ho fatto tante fotografie e ho chiesto espressamente ai location manager, ai responsabili della produzione senegalese che NON cambiassero quell’illuminazione stradale, perché era particolarmente affascinante. Questo sapendo che tutte le città cercano velocemente di evolvere verso altri tipi di illuminazione. Quando siamo tornati, nel marzo 2022, fortunatamente l’illuminazione era ancora quella. Però non abbiamo girato subito lì al mercato, siamo passati ad altre sequenze. Due giorni prima di girare quelle notturne che dovevamo realizzare nel mercato, ho scoperto che avevano modificato totalmente l’illuminazione: avevano trasformato a led tutta la strada. Non solo: anche alcuni degli interni erano cambiati, perché le vecchie luci colorate, i neon un po’ sbiaditi, erano diventate un po’ tutte uguali, tutti led bianchi e anonimi. Allora cosa ho fatto? Sono ritornato al passato. Ho trasformato laddove era possibile una buona parte dei lampioni stradali, ho ritrasformato i piccoli negozi all’interno del souk ridandogli delle luminosità più colorate, più simili a quelle che erano nel recente passato, e la ricostruzione dell’illuminazione del set mi ha portato a realizzare uan sequenza che poi ho dovuto solo ‘bilanciare’, ma non l’ho modificata quasi per nulla. La color correction è stata veloce su Io capitano, il bravissimo colorist – Angelo Francavilla – conosce Matteo, perché ha fatto tutti i suoi film, e quando insieme abbiamo rivisto tutto eravamo molto felici già della copia lavoro, e non è stato difficile arrivare all’immagine finale.
È un po’ come se aveste fatto una pre-color correction, ma ‘fisica’, materiale, non digitale in postproduzione.
Io cerco di rispettare la realtà, ma comunque sempre la controllo o elaboro in funzione del racconto. Perché se camminando per strada vedo un’immagine fortissima, cerco di portare questa immagine sul set e farla diventare parte del film, anche se non era lì, proprio lì, ma magari nel vicolo accanto … . È tutto vero, è un cercare di rubare alla realtà il meglio che ti può dare: il meglio è sempre relativo non a una bellezza estetica, ma alla giustezza rispetto al racconto.
Come si fa a rendere ‘psicologicamente toccante’ anche la fotografia? Mi viene in mente una scena all’interno del centro di detenzione: lì sembrava che quest’uso ‘dolce’ della steadycam fosse improvvisamente tutto un po’ più precario, volutamente, con delle riprese dal sapore molto diverso.
Nel centro di detenzione in realtà c’è stata un’elaborazione mia di quel set, per portare lo spettatore a vivere un mondo che sì, quello era più cupo e duro, attraverso l’illuminazione. Poi ho cercato di diminuire al massimo la profondità di campo, in modo che i fondi fossero molto più sfocati che in altre sequenze, per dare la sensazione dell’isolamento di Seydou dal resto del mondo e del disequilibrio psicologico che lui viveva dentro la prigione. E poi i colori della scenografia, l’utilizzo di una luce molto più violentemente chiaroscurale, in cui i fondi erano anche più bui: tutto questo per portare probabilmente lo spettatore a vivere in maniera più angosciante e cupo quel mondo, come doveva essere nel racconto. Abbiamo invece usato la macchina a mano dalla sequenza in cui sulla nave Seidou scopre che ci sono alcuni migranti chiusi nella sala macchine, che stanno morendo soffocati: da quel momento in poi, che è un climax drammatico, il viaggio diventa più convulso, più ansioso. Quella sequenza, insieme alla sequenza finale dell’arrivo dell’elicottero della Guardia Costiera, le abbiamo girate con la macchina a mano, quindi con un respiro più ansioso rispetto alla dolcezza del movimento della steadycam.
Come avete girato la scena finale?
È stata girata a mano, eravamo tutti in piedi, noi intorno a lui, sopra il tetto della cabina di pilotaggio del nostro peschereccio – la Cometa – e insieme a lui eravamo tutti sballottati dal vento delle pale dell’elicottero e bagnati dall’acqua di mare che le pale sollevavano: noi, la macchina da presa, l’obiettivo, Seidou… ed è una sequenza lunghissima, molto più lunga di quanto poi è stato montato, ma estremamente emozionante.
E la scena ‘thriller’ della jeep?
Il Capo macchinista Fabrizio Diamanti aveva costruito una pedana su cui c’era la macchina da presa e una piccola parte della troupe, che era ancorata al fianco del pickup che traportava i migranti. Quindi eravamo lì, sul pickup, insieme a loro. In una parte delle sequenze eravamo lì e abbiamo vissuto gli scossoni, gli sballottamenti di un autista un po’ pazzo che si era un po’ troppo immedesimato nel suo ruolo di stuntman spericolato. Là si è rischiato molto, perché effettivamente il terreno era molto sconnesso. Però ogni volta noi eravamo lì, sul posto con i nostri protagonisti. E così, e questo è il modo di lavorare di Matteo Garrone, quando abbiamo girato le sequenze della barca in mare, eravamo sul peschereccio. Una parte indispensabile della troupe, circa 10-15 persone, era sul peschereccio insieme ai migranti. Che a tratti erano veramente tanti, più di cento.Lo spazio era talmente stipato che era difficile muoversi. Abbiamo ricostruito le condizioni reali del viaggio e ci siamo calati dentro con la macchina da presa. Eravamo veramente con loro, e lo stesso abbiamo fatto anche sul pick-up, perché dovevamo vivere con loro quel momento.
Quindi la scelta di vivere tutti l’esperienza di quel racconto è stata una scelta artistica molto precisa.
Assolutamente sì, quello che Matteo fa con i suoi attori lo fa anche con noi. Mai come in questo film è stato così, ed è stato bellissimo perché tutti noi abbiamo viaggiato insieme, quindi se ami viaggiare, anche nel pericolo il viaggio diventa un’esperienza affascinante. In tutto le riprese sono durate dieci-undici settimane, un po’ meno di tre mesi, più la preparazione… diciamo che sono stati bellissimi mesi di viaggio.
Per quanto riguarda il lato della fotografia, vi siete appoggiati anche a maestranze e attrezzature locali o avevate tutto al seguito?
Il cuore importante della troupe era tutto italiano e anche l’attrezzatura tecnica, che ha viaggiato con noi, arrivata in parte via mare e in parte via aereo. Questo perché essendo noi itineranti – abbiamo attraversato tre nazioni – ogni volta cambiare totalmente il cuore della troupe o della struttura tecnica e dell’attrezzatura, sarebbe stato difficile. Ovviamente ci siamo avvalsi dell’apporto di alcune maestranze in Senegal, molte di più e molto più specializzate in Marocco, dove c’è un’esperienza di cinematografia molto più forte. Le produzioni locali ci hanno aiutato moltissimo soprattutto a livello di scouting, location, supporto logistico. Per quanto riguarda le attrezzature, abbiamo trovato miracolosamente delle luci in Senegal, per rimediare al ritardo del cargo che portava le nostre. Altrimenti non saremmo riusciti a girare alcune delle sequenze iniziali del film. Per le riprese aeree, effettuate con i droni, l’attrezzatura ci è stata fornita dall’equipe marocchina, con un bravissimo operatore marocchino.
Parliamo della realizzazione in digitale della piattaforma petrolifera a Marsala.
Anzitutto ne abbiamo condiviso l’idea, prima di girare. E poi abbiamo girato con il peschereccio che percorreva la lunga banchina che arriva alla fine del porto di Marsala. Su quella banchina abbiamo piazzato dei ‘cherry picker’ con dei proiettori che riproducevano quelle che sarebbero state le luci di una piattaforma petrolifera, che avrebbe illuminato i nostri attori e il peschereccio se fosse passato fianco a delle piattaforme sul mare. La struttura luminosa della scena era data dalle nostre luci e successivamente la banchina è stata cancellata e al suo posto sono state messe le piattaforme petrolifere, e le loro luci si sono mescolate perfettamente con quelle che io avevo messo per dare la sensazione del passaggio del peschereccio vicino a queste piattaforme, per poi ritornare infine nel buio della notte del mare.
Ma ci sono altre riprese da raccontare, non poco difficili, per quanto certamente avventurose.
È la sequenza in cui i migranti, alla fine del loro percorso nel deserto, vengono catturati dai libici, e Moustapha e Seydou vengono divisi, è stata girata in pieno deserto di notte. È una delle sequenze che abbiamo girato in tre lunghe notti nel pieno di una violenta tempesta di sabbia, che ha messo in difficoltà tutti noi, anche fisicamente. Ci avevano dotato di occhiali, di maschere, di qualsiasi cosa per difenderci gli occhi e il viso dalla sabbia . E noi abbiamo girato nella tempesta di sabbia, perché l’atmosfera era particolarmente forte e affascinante. Il forte vento ci ha accompagnato anche in alcune sequenze di giorno, come alla fine del viaggio nel deserto, quando Seydou sale sul camion che lo porta verso la città Anche là il vento tirava fortissimo. È stato difficile, ma era talmente forte l’emozione e sapevamo che quelle immagini erano imperdibili… per cui abbiamo deciso di girare comunque. Bravissima l’equipe tecnica, Tiziano Saraca focus puller, Andrea Cuomo DIT, Gabriele Gorga capo elettricista e tutti quanti, che a fine giornata doveva pulire a fondo tutti i nostri materiali: la sabbia è terribile, può rendere inutilizzabili le macchine e le lenti, se non ben protette. Anche i miei occhiali sono distrutti, ce li ho qua come un cimelio, completamente rigati”. Credo sia importante ricordare che se l’immagine del film è forte, non è solo merito della fotografia del film, ma del connubio tra scenografia, costume, fotografia e intuito registico. Questo è fondamentale: sono tutti questi elementi che costruiscono l’immagine del film quando si coordinano, quando si riesce a collaborare come abbiamo fatto così bene con Dimitri Capuani, Stefano Ciammitti, Dalia Colli e gli altri.
Avete già progetti futuri con Garrone?
Mi auguro tantissimo di fare di nuovo un film con Matteo, so che al momento sta elaborando più progetti, e quando ne avrà uno pronto mi auguro proprio di farne parte. Posso dire che la nostra collaborazione è stata molto stimolante e spero si possa riproporre presto.
Paolo Carnera ha diretto la fotografia di numerosi film e documentari firmati da registi pluripremiati. Per citarne solo qualcuno, le collaborazioni con Mario Martone per Nostalgia e Laggiù qualcuno mi ama (entrambi del 2022); con Paolo Taviani per Leonora addio (2022); con i fratelli D’Innocenzo per La terra dell’abbastanza (2018), America Latina (2022) e Favolacce (2020) che gli è valso il Nastro D’Argento alla miglior fotografia; con Paolo Virzì per La bella vita (1994) e Ferie d’agosto (1996); con Francesca Archibugi per Verso sera (1990) e Il grande cocomero (1993); con Stefano Sollima con Romanzo criminale – La serie (2008-2010), ACAB – All Cops Are Bastards (2012) per il quale ha ricevuto la nomination ai David di Donatello, Suburra (2015), Adagio (2023) e la serie Il mostro, attualmente in lavorazione, come pure La via per Parigi di Peter Greenaway e l’ultimo film di Gabriele Mainetti.
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