‘Io Capitano’ dietro le quinte: il trucco e lo ‘special effects makeup’ di Dalia Colli

"Ho dovuto studiare le immagini delle torture reali per capire come la pelle scura reagisca alla comparsa di lividi, e di che colore risulta il sangue sulla carne viva di un africano".


Il premio “La Chioma di Berenice” che Dalia Colli ha vinto all’80ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per Io Capitano si aggiunge ai tanti che ha incassato negli anni, tra cui tre David di Donatello per altrettanti film di Matteo Garrone (Reality, Dogman e Pinocchio) e un European Film Awards, sempre per Dogman. Con Mark Coulier e Francesco Pegoretti è stata anche candidata all’Oscar 2021 per Pinocchio. 

Cosa può raccontarci dell’esperienza in questo nuovo ‘viaggio’ così importante con Matteo Garrone? Anche rispetto agli altri progetti con lui, quali sono state le specificità dal punto di vista del trucco riguardo alle nuove sfide, all’approccio con tanti attori e comparse, ad un tema così delicato, in condizioni ambientali avverse…? Cosa le ha lasciato dentro Io capitano?

Anche quest’avventura con Matteo Garrone ha segnato la mia vita. Quando lavoro con lui affronto sempre sfide nuove, che siano tecniche o umane fa poca differenza. Dai suoi film non ne esco mai senza “cicatrici”, ma arricchita da esperienze e sensazioni. Quando ho letto la sceneggiatura ho pianto lacrime amare, che sapevano di impotenza e di indignazione di fronte al dramma del traffico di esseri umani dall’Africa. Ero orgogliosa di poter partecipare a un progetto che avrebbe potuto aiutare a cambiare il modo pensare di molti riguardo ai migranti che popolano le nostre città, che avrebbe potuto risvegliare qualche animo annichilito dal benessere occidentale.

Per prepararmi sull’argomento e avere un’idea sul da farsi ho visto, rivisto e rivisto ancora immagini raccapriccianti, che raccontavano la vera storia del viaggio della speranza, le tappe che queste persone devono compiere oltre le loro forze per sopravvivere alla natura e alla malignità e avidità dell’uomo.

Come fu per Gomorra, che mi fece scoprire un mondo a me sconosciuto, ossia la realtà di Scampia e delle famigerate Vele, Io Capitano mi ha tolto ogni dubbio sulla brutalità che forse solo l’essere umano è capace di rivolgere verso i propri simili.

Malgrado tutte queste premesse, la tristezza della situazione non ha mai offuscato i colori, i sorrisi, l’allegria e l’ospitalità delle persone che hanno lavorato con noi; persone che con i loro sguardi intensi, speranzosi, hanno dato un’anima vera e potente al film.

Ero già stata in Africa a girare e precisamente nel meraviglioso Kenya. Del Senegal purtroppo ho visto solo Dakar, con i suoi mercati di bancarelle dove trovavi le uova accanto alle ciabatte. Con i suoi intrecci di odori acuti e pungenti, un mix di spezie e sudore, pesce e capra, smog e salmastro. Ho mangiato tutto quello che mi è stato offerto, condiviso con sconosciuti in un unico piatto dove dita affamate si tingevano di pomodoro, sono stata afflitta dai successivi mal di pancia e disappetenza ma, come dire, ne è valsa la pena.

Quante persone eravate nella squadra del trucco? Quali sono state le fasi del lavoro, lei è entrata in campo a partire dai sopralluoghi?

Il Reparto Make Up e Special Make Up era purtroppo composto solo da me e dalla mia valida assistente e collaboratrice, Roberta Martorina.

Il mio lavoro su Io Capitano è iniziato dopo aver chiuso la prima telefonata con Matteo, con la quale mi ha coinvolta nel progetto. Sono seguiti confronti, scambi di idee e anche importanti discussioni. Abbiamo parlato di ogni personaggio accuratamente, e riferendoci sempre ad immagini reali, siamo partite alla volta di Dakar per eseguire i lifecasting (ossia i calchi della testa, degli arti e del busto) degli attori che nel racconto avrebbero subito le violenze, e che quindi avrebbero riportato ecchimosi, ferite e quant’altro.

Era dicembre. Arrivare all’aeroporto di Dakar di notte, con tutta quella folla, quel frastuono di voci e odori, fu abbastanza impressionante. Da quel momento in poi è stato solo un crescendo di emozioni, dovute a incontri incredibili e al susseguirsi di inaspettati momenti che potevano andare dal tragico all’esilarante. Questo turbine ci ha accompagnate sin dall’inizio della preparazione, fase fondamentale affinché tutto sia più gestibile al momento delle riprese. Ci sono moltissime cose che vanno studiate, provate, cambiate e rifatte, a volte dal principio, prima del primo ciak, soprattutto se è previsto l’utilizzo di protesi di ‘special makeup’.

Cosa significa esattamente? Può farci degli esempi dei vostri interventi?

Dalla modellatura alla protesi, i passaggi sono tanti e lunghi. Prevedono l’utilizzo di materiale specifico, e nulla può essere affidato al caso. Volevo che tutti gli interventi di trucco e di trucco prostetico fossero realistici e invisibili, affinché la magia del racconto filmico non s’interrompesse per colpa di un particolare non riuscito. Non è stato facile, e non sempre tutto è filato liscio. Ricordo il giorno in cui giravamo i corpi mummificati nel deserto: soffiava un vento fortissimo e il sole era a picco. Non sapevo se provavo freddo o caldo. Finalmente dopo giorni e giorni di lavoro per realizzare le mummie, era arrivato il loro momento. Quindi mi preoccupai di scaricare i corpi dal van che ci aveva portati, scoprendo ahimè che questo non c’era più. L’autista se li era portati chissà dove via sul pick-up, ed eravamo nel bel mezzo del deserto. Sull’orlo di una crisi di nervi, dopo svariato tempo, recuperammo i corpi dal mezzo, ma sfortunatamente non si trovavano più le teste. Credo che in quel momento avessi le lacrime agli occhi e le parolacce fioccavano per tutti. Con i corpi finalmente ricomposti sottobraccio, che per fortuna erano abbastanza leggeri, seguivo Matteo sui crinali delle dune alla ricerca del punto migliore dove posizionarli. Mi veniva da ridere perché la situazione era abbastanza tragicomica, e la stanchezza era veramente tanta.

Avevate tutto con voi o avete dovuto reperire qualche materiale nelle diverse location africane?

La preparazione, soprattutto quando fatta in location, permette di capire anche le difficoltà che potrai avere, durante le riprese, nel reperire materiali e prodotti in molti casi specifici, preparandoti ad eventuali inconvenienti. A Dakar, per esempio, non esisteva l’acetone puro, quello che noi comunemente compriamo dal ferramenta e questo ci ha obbligato a correre come delle matte per tutti i mercati, stappando e annusando improbabili bottiglie contenti liquidi a noi sconosciuti. Dopo la preparazione arriva il fatidico primo ciak, e con lui inizia la fase delle riprese dove tutto prende forma, dove tutto può ancora trasformarsi e dove devi sempre essere pronto a far fronte alle richieste, necessità e imprevisti che si presentano. È la fase rivelatoria, quando tutto ciò che hai pensato e preparato fa i conti con la macchina da presa, e chiude il cerchio della composizione dell’immagine fatto di scenografia costumi luci, suoni e regia.

Quali sono state le scelte ‘estetiche’ di fondo dal suo lato? E quali le scene più complesse da rendere? A tutti resta in mente la terrificante stanza delle torture.

In fase di preparazione il primo passo è la scelta estetica del film. In questo caso l’unica fonte dalla quale attingere era la realtà, quindi con Matteo e tutta la sua equipe avevamo recuperato molte immagini di riferimento. La scena della stanza delle torture è stata veramente impegnativa. Avevo qualche aiuto dall’Italia, ma le cose da fare erano talmente tante che saremmo dovuti essere un battaglione. Tuttavia, grazie alla scenografia di Dimitri Capuani, ai costumi di Stefano Ciammitti e all’atmosfera creata dalle luci di Paolo Carnera, siamo riuscite a rendere l’idea del dolore fisico e della paura. Avevo previsto delle protesi “a canotta“ per la tortura della plastica sciolta sui petti degli attori e per le frustate sulla schiena e, usando il silicone per la loro realizzazione, potevo stare tranquilla che nessuno si sarebbe fatto male, visto che questo materiale è totalmente isolante ed ignifugo. Avevo già avuto esperienze con pelli di colore, ma si è sempre trattato di interventi di trucco estetico. Per rendere la giusta realtà alla carne martoriata ho dovuto studiare le immagini delle reali torture, per capire come la pelle scura reagisca alla comparsa di lividi, di che colore risulta il sangue sulla carne viva di un africano, e tutte le evoluzioni di una ferita in guarigione. Cose non piacevoli all’occhio ma interessanti da osservare. Parlammo poi delle ferite che Seydou avrebbe dovuto avere a seguito delle torture, e si decise che quelle ferite sarebbero dovute diventare cicatrici, che in qualche modo trasformavano quel ragazzo partito bambino nell’uomo che era arrivato in Italia, salvando tutta quella gente. Per il design delle ferite sul volto di Seydou ho pensato ad un tatuaggio tribale, che desse più durezza allo sguardo dolce e smarrito del personaggio.

Con tale e tanta esperienza alle spalle, come sceglie i progetti su cui lavorare? 

Quando posso scegliere, prediligo il film piuttosto che la serie. Credo che i tempi del cinema, che già sono frenetici, ti permettano di far meglio il tuo lavoro, di curare i particolari, che a mio avviso fanno ricco il film. Anche la produzione influenza le mie scelte. Purtroppo ho avuto brutte esperienze in passato con società fantasma e imbroglioni vari, che ancora oggi mi bruciano. Ad oggi ho lavorato un po’ per tutte le produzioni italiane. Mi piacerebbe collaborare a una produzione straniera, del nord Europa… sarebbe interessante!

Quanto influiscono le nuove tecnologie nel mestiere del truccatore? Lei che strumenti usa?

Ho avuto la fortuna di iniziare a fare cinema quando ancora si girava in pellicola. Il mio primo maestro è stato Vittorio Sodano, truccatore e sfx (Special Effects Makeup, ndr), che già agli inizi del 2000 aveva il suo laboratorio, dove ho iniziato a lavorare appena uscita dall’Accademia di Belle Arti. Da lui ho imparato ad esempio la tecnica ad aerografo per l’applicazione del make up, tecnica pittorica che conoscevo ma che utilizzavo per le decorazioni parietali. Sicuramente in Italia nel 2002 era ancora quasi inutilizzata in campo estetico cinematografico. La tecnica ad aerografo prevede l’utilizzo di un minicompressore, che collegato con un tubo ad un aeropenna, immette aria compressa nel corpo di questa, nebulizzando il fondotinta o gli altri tipi di colori liquidi contenuti nell’apposito recipiente. L’effetto che si ha sulla pelle, per esempio per un trucco beauty, è di leggerezza, senza perdita dell’effetto coprente. Sicuramente prima di usare l’aerografo si devono saper usare pennelli, dita e spugnetta, perché una macchina si può sempre rompere nel momento meno opportuno!

Quando dalla pellicola siamo passati al digitale, ogni truccatore e sfx ha dovuto come dire… fare l’upgrade. Le nozioni che fino allora avevo appreso andavano per molti versi tradotte in un linguaggio nuovo, quello dei pixel e dell’high definition. Non è stato semplice né immediato aggiornare la mia tecnica, ma ad aiutarmi avevo l’esperienza artistica del liceo e dell’Accademia di Belle Arti, e in più tutte le nuove nozioni apprese dai miei maestri truccatori.

Quali sono i suoi progetti futuri? Oltre ai prossimi film, è vero che lei ha anche un progetto didattico in cantiere?

In questo momento sto girando una serie interessante firmata da Stefano Mordini, sulla realtà adolescenziale della provincia laziale. È un tema più che attuale, ed è stato stato stimolante creare l’outfit dei personaggi, tutti più o meno teen.

Ricordo che quando partii per Roma poco più che ventenne ed entrai nel mondo del cinema romano mi prefissai un percorso: riuscire in questo mestiere così affascinante e, una volta libera dal vincolo del dover vivere a Roma, che per me comportava la lontananza dalla mia famiglia, dal mio mare e dal mio nulla e tutto livornese, sarei tornata nella mia città. Lì un giorno, da grande, avrei aperto una scuola per giovani aspiranti truccatori e un laboratorio di effetti speciali. Una volta vecchia e troppo stanca per il set e l’insegnamento, avrei passato il mio tempo a dipingere. All’epoca era solo un vaneggiamento, ma adesso sembra che si realizzi un altro step di quel sogno giovanile.

Infatti sono in atto i lavori di ristrutturazione di quella che diventerà una piccola scuola artigiana di trucco, e un laboratorio di effetti speciali cinematografici dove potrò realizzare i miei lavori. Per la prima volta nella provincia toscana qualcuno di quei giovani che forse ha un sogno simile al mio potrà in parte realizzarlo senza dover spostarsi troppo, con la certezza che tutto quello che imparerà lo renderà, con l’impegno e la dedizione giusti, un vero professionista.

 

 

Giovanna Pasi
08 Dicembre 2023

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