Effetto Rosi

Per il centenario di Francesco Rosi, pubblichiamo una riflessione sugli intrecci tra il metodo indiziario di questo autore e il lavoro di cineasti contemporanei, da Roberto Andò a Nanni Moretti


Ci sarà una ragione se nel suo libro-intervista Il piacere di essere un altro (scritto con Salvatore Ferlita per La Nave di Teseo), Roberto Andò considera Francesco Rosi, e Salvatore Giuliano (1962) in particolare, fonti primarie d’ispirazione. L’autore che in queste settimane ha riportato al cinema il pubblico con La stranezza, raro, significativo e pirandelliano esempio di film d’autore colto e popolare a un tempo, ha anche diretto il bellissimo documentario-ritratto Il cineasta e il labirinto (2002) e scritto uno dei saggi più intensi su Rosi, dal titolo emblematico: La bellezza della verità, all’epoca in cui era stato assistente alla regia in Dimenticare Palermo (1990). E la ragione, che c’è, coincide con la scelta di Giuseppe Tornatore di scrivere a quattro mani con il diretto interessato la monumentale autobiografia in forma di intervista di Rosi, Io lo chiamo cinematografo (edita da Mondadori, ma purtroppo fuori commercio in quest’anno in cui ricorre il centenario dalla nascita). E si potrebbe continuare all’infinito, con Nanni Moretti che si ispira dichiaratamente a Le mani sulla città (1963) e soprattutto a Il caso Mattei (1972) per Il Caimano (2006), con Marco Tullio Giordana che fa citare sempre Le mani sulla città ne I cento passi (2000) e ne preserva il modello rigoroso in Romanzo di una strage (2012) o ad Andrea Segre che de Le mani sulla città riprende la didascalia finale ne L’ordine delle cose (2017).

Senza contare gli altri grandi cineasti internazionali che da Rosi hanno imparato a costruire, o meglio decostruire in chiave indiziaria castelli di carte false su casi storico-politici eclatanti, da Costantin Costa-Gavras ad Alan J. Pakula e in tempi più recenti Oliver Stone e Tom McCarthy. La verità, intrinsecamente “bella” come afferma Andò, è che nella storia del cinema Rosi è stato il maggior virtuoso del paradigma politico-indiziario.

Più incisivo di tanti storici contemporanei. Quest’istanza civile e investigativa l’ha maturata con largo anticipo persino sull’emblematico Salvatore Giuliano, cioè già ne La sfida (1958) e I magliari (1959), quando ormai era entrato definitivamente in crisi l’approccio neorealistico alla realtà sociale e politica. Addirittura la vocazione per la costruzione civile di ipotesi indiziarie di verità politicamente rilevanti, in estrema sintesi la definizione della nozione di “politico-indiziario” operativa in ambito cinematografico, potrebbe essere fatta risalire al soggetto di Processo alla città (1952) di Luigi Zampa, che con Ettore Giannini il giovane Rosi aveva firmato con notevole lungimiranza d’autore. Era insomma per lui chiaro già allora, non soltanto in senso filmico, che occorreva procedere diversamente sul piano conoscitivo: ipotizzare la verità, decifrandola parzialmente, per lasciarla intravedere o intendere attraverso indizi sapientemente disposti lungo un asse logico-rappresentativo trasversale, non necessariamente cronologico.

Il suo modo di accrescere la conoscenza in relazione a fatti non completamente accertati, da Salvatore Giuliano e Le mani sulla città a Il caso Mattei, Lucky Luciano (1973) e Cadaveri eccellenti (1976) ha comportato l’accostamento di eventi maggiori e minori, senza soluzioni di continuità, all’apparenza non collegati tra loro, almeno non ufficialmente e soprattutto non consequenziali secondo un semplice e innocuo tracciato diacronico.

Da questa premessa di decostruzione, la pars destruens del discorso, trae spunto l’esigenza di stabilire nuove connessioni, ossia la pars costruens. Lo scopo è quello di trasformare una materia proposta come lineare in un labirinto ragionato di dubbi, verità relative, costantemente suscettibili di riformulazioni. Procedendo per inferenze puntellate da fatti concreti o circostanze documentate, Rosi ha avvertito in continuazione la necessità di concepire il racconto con andirivieni spazio-temporali sintomatici di una concezione complessa, disillusa e dolente della storia.

Anche in opere molto diverse tra loro per ispirazione, forza lirica e origine, spesso di matrice letteraria o teatrale, da C’era una volta (1967) e Uomini contro (1970), passando per Cadaveri eccellenti, a Cristo si è fermato a Eboli (1979) e Tre fratelli (1981), da Carmen (1984) e Cronaca di una morte annunciata (1987) a Dimenticare Palermo e La tregua (1997), aggiungendo quindi i mirati allestimenti scenici di Napoli milionaria (2003), Le voci di dentro (2006) e Filumena Marturano (2008), contano le dinamiche e gli sviluppi possibili dell’inchiesta, del processo, delle commissioni d’inchiesta, dell’indagine poliziesca e della ricerca personale della verità, esteticamente bella in quello stile inconfondibile del migliore allievo di Luchino Visconti o di concerto tragicamente brutta.

Anton Giulio Mancino
14 Novembre 2022

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