70 anni de ‘I sette Samurai’, il capolavoro di Kurosawa

Una pietra miliare della storia del cinema che ha ispirato grandi registi, da Sergio Leone a Steven Spielberg


Il Giappone è sempre più un centro gravitazionale dell’interesse per il nostro Paese. i prodotti culturali del Sol Levante trainati da manga e anime hanno portato, specialmente i più giovani, a volgere gli occhi e i cuori verso una cultura che esprime il massimo dell’esotismo possibile.

Dagli Shogun ai Samurai

Uno degli ultimi successi della piattaforma Disney+ lo dimostra chiaramente: la miniserie kolossal in dieci puntate Shōgun, basata sull’omonimo romanzo del 1975 scritto da James Clavell, a sua volta ispirato a vicende reali e sceneggiato da Justin Marks e Rachel Kondo, è stabilmente tra i contenuti più visti in assoluto. In Italia e non solo.

Restando in atmosfera e in periodo, assume ancora più rilevanza il 70° anniversario de I Sette Samurai (Shichinin no samurai) capolavoro indiscusso e allo stesso tempo punto di partenza ideale per chi volesse approdare alle opere del leggendario regista giapponese Akira Kurosawa.

Altre sue opere sono ugualmente santificate dalla critica – come  non pensare a quella  straordinaria meditazione sulla verità che è Rashomon (1950) o  la ispirata rivisitazione di Re Lear che è Ran (1985) – ma I Sette Samurai , uscito appunto nell’aprile del 1954, è il miglior battesimo cinematografico che possa fare uno spettatore rispetto alla poetica e allo stile inimitabile di un Maestro come Kurosawa, forse più venerato al di fuori del suo paese che al suo interno.

La madre di tutte le missioni di squadra

L’influenza de I Sette Samurai (uscito in Giappone il 26 aprile 1954) e di Kurosawa in generale è particolarmente evidente nella storia di Hollywood, dove registi come Steven Spielberg, Martin Scorsese, Francis Coppola e George Lucas hanno reso sempre onore al loro eroe cinematografico.

Per quanto riguarda quest’ultimo, Star Wars (1977) è spesso visto come un remake de La fortezza nascosta (1958) di Kurosawa, ad esempio. E anche il film di cui ricorre in questi giorni il compleanno dei sette decenni – I Sette Samurai, appunto –  permea di sé il capolavoro di Lucas. Sia per  il montaggio incalzante, le transizioni, il design dei costumi, i temi dell’onore, della lealtà, del sacrificio, del bene contro il male e così via.

Di fatto è una fonte seminale di un genere che avrebbe attraversato il resto del secolo. Il critico Michael Jeck suggerisce che questo è stato il primo film in cui una squadra viene assemblata per portare a termine una missione. Pensiamo a I cannoni di Navarone, Quella sporca dozzina e a innumerevoli film di guerra, rapine e crimini successivi.

Poiché anche l’avventura La sfida dei samurai (1961) di Kurosawa è stata rifatta con il titolo Per un pugno di dollari da Sergio Leone e ha creato essenzialmente lo spaghetti western, si potrebbe affermare che il più grande dei registi ha dato lavoro agli eroi d’azione per i successivi 50 anni.

L’umanesimo flessibile

Se parliamo di remake de I Sette Samurai, però, dobbiamo rivolgere i nostri occhi altrove. Al cinema western epico di John Sturges che diede vita nel 1960 a I Magnifici Sette. Sebbene questi sia diventato un classico, manca però di una componente chiave del materiale di partenza: il codice d’onore che porta i guerrieri samurai a combattere per proteggere i contadini che normalmente ignorerebbero o addirittura sfrutterebbero.

L’obiettivo di Kurosawa era quello di realizzare un film sui samurai che fosse ancorato all’antica cultura giapponese, ma che sostenesse un “umanesimo flessibile” al posto delle rigide tradizioni. Una delle verità centrali de I Sette samurai  è che i samurai e gli abitanti del villaggio che li assumono appartengono a caste diverse e non devono mai mescolarsi. Infatti, apprendiamo che questi “villici” erano stati in passato ostili ai samurai. Tuttavia, i banditi rappresentano una minaccia maggiore e quindi i samurai vengono assunti, apprezzati e trattati con diffidenza in egual misura.

Perché i sette accettano il lavoro, allora? Perché, per una manciata di riso ogni giorno, rischiano la vita? Perché questo è il lavoro e la natura del samurai. Entrambe le parti sono vincolate dai ruoli imposti loro dalla società. Tutto questo manca al film di Sturges, che resta però una pietra miliare dell’epopea western.

La trama

La semplice trama de I sette Samurai prevede l’assemblaggio iniziale della banda, dopo che questa viene cercata da contadini disperati e minacciati da banditi predoni. A capo dei sette ronin c’è Kambei (Takashi Shimura), uno stratega brillante e cupo, ma dotato di un umorismo pacato. L’abile arciere Gorōbei (Yoshio Inaba) funge da suo vice. Lo spadaccino Kyūzō (Seiji Miyaguchi), dalla faccia da poppante e dal morale alto, Heihachi (Minoru Chiaki) e il vecchio amico di Kambei, Shichirōji (Daisuke Katō), forniscono ulteriore supporto.

I sette sono completati dal giovane e serio Katsushirō (Isao Kimura), che Kambei accetta con riluttanza come apprendista, e dal rozzo Kikuchiyo (Toshiro Mifune), che si rivela una sorta di jolly, dato che ha mentito (in modo poco convincente) sul fatto di essere un samurai. Tuttavia, per molti versi, Kikuchiyo emerge come una voce morale chiave in questa storia, indicando dolorose verità sia al samurai che agli abitanti del villaggio.

Una volta arrivati al villaggio, i sette si impegnano in elaborate strategie di protezione. Costruiscono barriere, scavano fossati, addestrano i contadini e si preparano alla battaglia. Varie sottotrame e intrighi all’interno del villaggio complicano le cose. Ad esempio, un padre, Manzo (Kamatari Fujiwara), è preoccupato che i samurai si accaniscano sulle giovani donne, così cerca di travestire la figlia da maschio, tagliandole i capelli e vestendola di conseguenza. Inevitabilmente, questo sotterfugio viene scoperto quando Katsushirō si lega sentimentalmente alla ragazza in questione, Shino (Keiko Tsushima), nonostante la differenza di classe vieti la loro unione.

Questo incidente e un paio di altri minacciano la solidità della resistenza contro i banditi. Tuttavia, la posizione viene mantenuta, in un finale notoriamente avvincente e di grande impatto visivo.

Una pietra miliare

Il direttore della fotografia Asakazu Nakai merita un riconoscimento speciale per il suo magnifico lavoro, che comprende combattimenti al rallentatore innovativi che forse hanno influenzato Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah. Le immagini monocromatiche, sporche di fango e bagnate dalla pioggia danno al film un taglio brutale, mentre il numero dei morti aumenta e noi piangiamo i samurai persi per la loro nobile causa.

Il film è lungo (207 minuti), eppure si muove con ritmo perché la narrazione è così chiara, ci sono così tanti personaggi ben definiti e le scene d’azione hanno una portata elettrizzante. Nessuno poteva fotografare gli uomini in azione meglio di Kurosawa. Uno dei suoi tratti distintivi è l’uso delle maree umane, che scendono verso valle e inquadrature in cui la cinepresa segue la frenesia dell’azione, invece di suddividerla in inquadrature separate.

Sebbene si tratti, in sostanza, di una semplice storia d’avventura, il film è più profondo nelle sue meditazioni sulla ferocia, la nobiltà, l’ipocrisia e l’onore; meditazioni che trascendono l’ambientazione del Giappone feudale e che hanno una risonanza universale. Se da un lato c’è molta eccitazione e umorismo, dall’altro ci sono anche sottigliezza, riflessione e pathos umano, soprattutto nei momenti finali, che conferiscono a questo film un fascino che trascende le sue radici di film d’azione.

A distanza di sette decenni, I sette Samurai rimane una pietra miliare della storia del cinema.

Manlio Castagna
21 Aprile 2024

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