‘Io Capitano’ dietro le quinte: la scenografia di Dimitri Capuani

“Il mio obiettivo era che il mio lavoro risultasse invisibile”: comincia con le parole dello scenografo il racconto che CinecittàNews dedica al making of di 'Io Capitano', il film di Matteo Garrone selezionato per la candidatura al Premio Oscar per il miglior film straniero.


Nel film, girato tra Senegal e Marocco, le scene e gli ambienti non sono altro che i deserti, il mediterraneo, le jeep, i bus, i mercati… Diciamo che non è così immediato capire come si è svolto il tuo lavoro.

“Infatti, questo è proprio il caso di dire che è una scenografia un po’ invisibile” – racconta Dimitri Capuani.  “Anche se poi è tutto ricostruito, inventato. Nel senso che la Libia, ad esempio, l’abbiamo fatta nel Marocco, quindi anche Tripoli e la sua periferia, anche il cantiere, sono girati a Casablanca. Perché non trovi mai quello che serve nel luogo in cui ti serve. Al Senegal Matteo (Garrone, ndr) non ha potuto rinunciare per tutta una serie di motivi, prima di tutto i colori che ci sono in Senegal: quando siamo arrivati lì siamo rimasti tutti sconvolti, Matteo temeva infatti che potesse essere troppo acceso, vivo, colorato… però quella è proprio la verità! Anche io ho letto qualche commento critico a quella che qualcuno ha definito una fotografia “troppo colorata” specialmente nella prima parte, ma il Senegal è esattamente così! Ha dei colori che ti rimbalzano sugli occhi, è come se avessero proprio bisogno di rendere la vita colorata, a partire dai tessuti con cui si vestono, dagli oggetti… è un mondo pieno di colori, con una vegetazione molto forte, anche se quella si sente poco nelle location dove abbiamo girato, ma era una cosa che ci aveva molto colpito. Perché inizialmente il luogo dove vivevano Seydou e Moussa non era il classico cortile, la concession, ma doveva essere un villaggio lontano da Dakar. Poi invece durante il nostro soggiorno – sopralluogo a Dakar, Matteo si è fatto dei giri ed è impazzito letteralmente per quella città, ha avuto un’illuminazione: “giriamo tutto a Dakar!”. Ed è crollata tutta l’idea di girare nei villaggi che stavamo preparando, e abbiamo girato in questi cortili che ci hanno accolto, chiedendo il permesso di volta in volta ai ‘capi’ del cortile, i capifamiglia, che hanno accettato di farci entrare con la troupe, e in realtà anche lì abbiamo fatto tutte le nostre modifiche per far sì che tutto potesse essere cinematograficamente ‘giusto’ per poterci girare: quindi buchi alle pareti, spostamenti di pareti… Ma la cosa secondo me molto importante, lo voglio sottolineare, è che noi abbiamo fatto lavorare le persone del posto: avevamo un trovarobe senegalese, un art director senegalese, due assistenti arredatori senegalesi. Abbiamo fatto questa scelta da subito, perché altrimenti sarebbe venuta fuori la ‘nostra’ versione del Senegal, quell’effetto cartolina che Matteo voleva assolutament evitare. Mentre avendo le persone locali, loro trovavano le materie e i materiali giusti. Avevamo anche l’aiuto pittore senegalese, chi meglio di lui poteva lavorare sulle textures all’interno delle case e dei cortili? Anche per i tessuti, siamo andati a prenderli dalle altre case, per fare poi il nostro collage: ma comunque prendendole tutte da lì intorno, per metterle a pochi metri, nel nostro cortile. Insomma, anche tutta la mia ricerca è stata all’insegna dell’autenticità più pura: l’unica cosa che mi sono permesso, ma probabilmente, lo spero, anche quello risulta invisibile allo spettatore, è stata colorare di rosso il bar dove c’è il vero trafficante, il proprietario della barca che gioca a carte, quello con cui Seydou va a parlare: rosso, perché è un colore che in quel momento così drammatico credo racconti emotivamente meglio la tensione, la grande paura di Seydou di prendersi la responsabilità della vita di tutte quelle persone”.

Per quanto abbiate girato tutto a Dakar, una cosa che ho notato nettamente è che nel suo arco narrativo il film ha una sua chiara evoluzione proprio nei colori: all’inizio, in Senegal, nel loro villaggio, tutto sprigiona vita, colori accesi, mentre via via che il viaggio precipita nei suoi orrori tutto diventa più spento, meno saturo.  È stata una scelta, no?

“Sì, all’inizio era proprio una nostra scelta, quella di assecondare questa evoluzione, ma poi è venuta da sola, automaticamente: spostandoci dal Senegal al Magreb, dove è tutto più polveroso, più atonico, i colori sono divenuti automaticamente più ‘unitari’, vanno su una palette di colori molto più limitata. Con la sabbia diventa tutto più asciutto, non ci sono più questi colori forti, questi rossi, questi verdi, questi azzurri che c’erano in Senegal.  Era un processo che pensavamo di accompagnare noi, sia con la color corection che con gli arredi, coi i tessuti… e invece è venuto da sé, la color correction quasi non esiste. Mentre di post-produzione ce n’è tanta, ad esempio la piattaforma petrolifera è tutta finta, ricostruita in computer grafica. Ma il fatto che lo spettatore noti questo anche nei colori, mi fa piacere. Perché ad un certo punto, una volta che loro superano la frontiera del Mali e fanno i passaporti, lì comincia l’incubo. Con la persona che cade dalla jeep cambiano le espressioni e il viaggio non è più una cosa bella, e diventa il contrario. Con Matteo poi tutte queste cose diventano ancora più realistiche, se possibile: perché noi su un’altra jeep seguivamo quella, saltavamo anche noi a quella velocità… Insomma, quello che occorre capire è che per affrontare un progetto di questo tipo, l’approccio è totalmente diverso rispetto a un fantasy, come ad esempio Pinocchio: Io Capitano è un film dove se davvero hai lavorato bene, il tuo lavoro non si nota. Perché deve essere integrato perfettamente al racconto. Sì, è bello che ci sia qualcosa di tuo, ma in questo caso devi stare molto attento a fare delle scelte cromatiche, anche nei props (gli oggetti di scena, ndr) e negli arredi, devi lavorare con molto garbo, per la scelta dei colori devi per forza consultarti con la gente del posto, devi proprio entrare e lavorare con loro, è l’unico modo. Anche i props stessi devi farli insieme a loro”.

Però anche per questo film c’è stato un grosso lavoro di ricerca preliminare, molto approfondito, nei tanti viaggi che dicevi avete fatto, prima di girare. Quindi poi tutto è stato rivisto?

“Semplicemente a un certo punto ci siamo chiesti come affrontare questo lavoro e la risposta è stata che dovevamo trasferirci in Senegal e affidarci alle maestranze locali. E la documentazione che hai preparato, una volta sul posto, te la dimentichi: lì scopri altri mondi”.

Cosa è rimasto della vostra documentazione preliminare, quindi?

“Ad esempio, i lavori che potevano fare Seydou e Moussa per racimolare i soldi del viaggio: siamo andati a vedere quali erano i lavori che si possono fare in Senegal, ad esempio avevamo scoperto che in Senegal si lavora tantissimo il tamarindo, era pieno di capannoni di tamarindo, con persone che spostavano sacchi e sacchi per caricarli sui treni per l’esportazione…  Oppure la documentazione per la festa del villaggio, cercando di scoprire quali erano le feste del luogo, contattando i senegalesi che vivono a Roma, che ci hanno spiegato cos’è il Sabar, la festa di quartiere. E scoprendo tutti gli strumenti musicali che vi vengono suonati. La ricerca su come sono le scuole, perché loro due all’inizio vanno a scuola, e su come sono i cortili, la vita. La preparazione delle scene al cimitero, abbiamo trovato quello bellissimo dove abbiamo girato con i baobab giganti, un luogo di una poesia incredibile. E nel momento in cui siamo andati a girare era pieno di uccelli che volavano sulle tombe. Poi anche per la scena del charlatan, c’è stata una ricerca fatta insime ad alcuni senegalesi che vivono qui a Roma, che ci hanno aiutato. Perché entrare nel mondo dei charlatan, che per loro sono figure sacre, non è semplice. Con loro non è semplice nemmeno parlarne. Quindi tutta la ricerca degli oggetti che utilizzano questi charlatan per benedire il viaggio che dovevano fare Seydou e Moussa…  Poi anche la scelta dei nezzi, bus compresi, che deve essere per forza fatta sul posto, durante le riprese. Puoi creare prima qualche premessa, prima di arrivare, ma poi devi lavorare tanto lì”.

Hai detto che a Dakar avete ricreato tanti villaggi. E dove avete ricostruito la stanza delle torture?

“Quando il racconto del film passa in Libia, le scene sono girate tutte in Marocco: per la parte del deserto siamo andati a Erfoud e a Merzouga, dove non c’è proprio niente, il nulla. Li abbiamo fatto il deserto e gran parte del viaggio con le jeep, ma anche quando vanno a piedi sulle dune, nei diversi tipi di deserto che loro incontrano: il deserto roccioso, quello piatto… Cambiano anche i colori nei deserti. Poi abbiamo fatto lì anche la frontiera del Mali, il posto dove loro fanno i passaporti è tutto rifatto con l’aiuto di tutta una serie di foto di dove avvengono queste cose: tutto il meccanismo, la fotografia, il timbro e il resto. Poi ci siamo spostati a Casablanca per fare il centro di detenzione e la stanza della tortura, ricostruita sulla base dei racconti di tante persone che hanno collaborato con Matteo, e poi di una quantità immensa di fotografie… abbiamo ricreato tutto in un carcere abbandonato a Casablanca”.

Io capitano è davvero riuscito nel miracolo di una regia invisibile e una scenografia invisibile, ma comunque piene di poesia, con le scene dei sogni che sono dei veri quadri, come la donna che vola.

“Sì, assolutamente, non ci sono mai quei compiacimenti estetici nel mettere la macchina da presa, ma poi c’è comunque la volontà di raccontarlo in un modo poetico. C’erano anche altri sogni, che però poi Matteo ha tolto, ha lasciato solo quelli che gli sembravano più belli e autentici”.

Raccontaci qualcosa di particolarmente tuo, che ti è rimasto in mente dal set.

“Personalmente mi ha divertito tanto quella sequenza della costruzione della fontana nella villa del riccone libico, perché praticamente abbiamo dovuto spiegare a Seydou e all’altro attore che non sapevano assolutamente fare quel mestiere quali erano le fasi del lavoro, gli strumenti, la livella, come si misuravano, come si mettevano gli azulejos…  lì ogni step l’ho dovuto seguire personalmente, quei giorni sono stato proprio sul set, 3 o 4 giorni proprio vestito da muratore, insieme a loro, dicendogli ‘adesso fate così’, poi mettendo via tutto il primo step della fontana e montando il secondo… Ovviamente avevamo un  muratore marocchino esperto, la tecnica delle fontane è la stessa in tutto il Magreb”.

Poi ci sono le scene in mare aperto, e un tuo grande lavoro sulla barca.

“Sì, sulle scene marine, tutte girate a Marsala, c’è tutto il lavoro di cancellazione della costa, in postproduzione. Quelle dentro il peschereccio, con tutti loro, sono state molto difficili, perché Matteo la barca l’ha voluta piena zeppa, come lo sono nella realtà. La barca era una vecchia chiatta bianca siciliana, tutta la cabina l’abbiamo ricreata noi, anche il ponteggio, la struttura, con tutte le ossidazioni, le ruggini, imitando i colori dei pescherecci libici.. siamo partiti da una chiatta bianca. È stato proprio tutto disegnato, da bozzetto, l’abbiamo rifatto come tutti questi barconi che arrivano a Lampedusa. Ah, c’è anche una curiosità: questo peschereccio siciliano si chiamava Cometa, e io ho voluto rimettere la scritta in arabo Cometa, nel film si vede… Cometa come la stella che loro seguono, che gli fa da guida”.

 

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Prima di curare la scenografia di Io Capitano, Dimitri Capuani (nella foto in alto) ha collaborato con Matteo Garrone ne Il racconto dei racconti, in Dogman e in Pinocchio – premiati con il David di Donatello e il Nastro d’Argento per il Miglior Scenografo. Sue le scenografie di Siccità di Paolo Virzì e di L’immensità di Emanuele Crialese. Con Martin Scorsese ha partecipato a Gangs of New York e Hugo Cabret. Molti i riconoscimenti italiani e internazionali.

Giovanna Pasi
17 Ottobre 2023

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