Daphne Di Cinto: “È importante rappresentare la formazione identitaria di un popolo”

La sceneggiatrice e regista ha realizzato il corto 'Il Moro', sull'afrodiscendenza di Alessandro de' Medici, che presto dovrebbe diventare anche una serie


Daphne Di Cinto, sceneggiatrice, regista e attrice afroitaliana, è nata e cresciuta a Lugo, in provincia di Ravenna. Ha studiato all’Actors Studio di New York e da circa otto anni vive a Londra. Quando era alle superiori si è avvicinata alla recitazione, ma dopo un percorso da attrice, e aver interpretato anche la Duchessa di Hastings nella serie di Netflix Bridgerton, ha scoperto che la scrittura e la regia erano le strade più giuste per lei.

Il suo primo lavoro dietro la macchina da presa è il cortometraggio Il Moro-The Moor, basato sulla vera storia di Alessandro de’ Medici (interpretato da Alberto Boubakar Malanchino), duca di Firenze nel 1530 e primo uomo afrodiscendente a diventare capo di stato nell’Europa rinascimentale. Il corto potrebbe diventare presto una serie, mentre la regista sta lavorando anche ad altri progetti italiani ed internazionali.

Daphne, come nasce l’idea di realizzare Il Moro?

Leggendo un articolo di giornale che si intitolava Dieci persone che non sapevi fossero nere, ho scoperto il background di Alessandro de’ Medici. Il mio primo commento è stato: “Non è possibile. Si sono sbagliati, lo avrei saputo”. Poi ho scoperto che ci sono tante cose che non ci insegnano a scuola, c’è una parte che viene lasciata purtroppo fuori. Nonostante i libri e i dipinti, c’è purtroppo chi afferma ancora oggi che non è vero che de’ Medici fosse nero. Così è nata la voglia di realizzare Il Moro.

La storia di Alessandro de’ Medici quanto parla al presente? 

Viviamo in un momento storico in cui c’è chi afferma che la nostra esistenza non è legittima in luoghi dove siamo nati. Io credo sia fondamentale celebrare le mie, le nostre radici, per rispetto della formazione identitaria di una popolazione e di un continente, non solo per gli afroeuropei, ma per tutti. La storia di Alessandro de’ Medici diventa emblematica oggi, nonostante lui non avesse allora il problema del colore della pelle, visto che nel Rinascimento il problema era essere il figlio di una serva. La sua vicenda e quella degli afroeuropei di oggi è legata da un filo sottile.

Questo è il motivo per cui hai scelto di scrivere e dirigere storie come questa?

Viviamo nel mondo dell’immagine, che oggi comunica più delle parole. Attraverso le immagini voglio rappresentare la nostra società e dare una rappresentazione adeguata e positiva dell’afrodiscendenza in Italia che fino a qualche anno fa veniva raccontata sempre partendo da preconcetti. Quando ho iniziato a fare l’attrice quasi vent’anni fa mi arrivavano sceneggiature per interpretare l’immigrata o la prostituta, perfino senza un nome. Personaggi stereotipati che partivano da un pregiudizio e che rimanere superficiale, senza essere approfonditi. Oggi questo non si può più giustificare. Va raccontata la storia a tutto tondo di queste persone. Ci sono anche dottori, avvocati, artisti neri afroeuropei. Negli ultimi tempi c’è stato un leggero miglioramento, ma la strada è ancora molto lunga.

Oggi il politicamente corretto non ha portato a introdurre nei film e nelle serie personaggi appartenenti a gruppi minoritari che possono risultare talvolta forzati e non naturali?

Il tokenismo non piace prima di tutto alle persone nere. Un ruolo deve essere adatto al nostro talento. Il problema nasce a monte quando venti, trent’anni fa non ci si poneva la domanda: “Stiamo rappresentando tutti?”. Se allora chi si trovava in luoghi decisionali avesse rappresentato la società come era effettivamente, oggi non ci troveremmo nella situazione in cui il tokenismo sembra forzato. Parliamo di queste cose e sembra che lo stiamo facendo apparentemente troppo per arrivare a un punto di equilibrio. Non devo convincere me stessa di esistere in questa società, ma mi tocca essere convincente con gli altri. Per molto tempo ci sono state persone che non ci hanno visto e ci hanno escluso, e ora di punto in bianco sembra che ci siamo solo noi, quando la nostra presenza rimane comunque minima.

Hai esordito prima come attrice. Com’è nato l’amore per la recitazione?

Alle superiori ho frequentato un istituto cattolico che aveva un teatro, forse l’unica scuola della mia provincia ad averne uno. La mia professoressa di lettere ci portava a vedere gli spettacoli per studiare la letteratura. A quei tempi ho ottenuto il mio primo ruolo sul palcoscenico, Cleopatra, nella tragedia di Shakespeare.

Hai recitato anche nella prima stagione di Bridgerton. Che esperienza è stata? 

Shonda Rhimes è uno dei miei miti assoluti, una totale ispirazione. E lavorare su un set come quello mi ha insegnato molto, qual è il fine ultimo e il livello qualitativo. Facendo l’attrice però ho capito che mi interessavano sempre di più la scrittura e la regia e ora sono concentrata su questi due aspetti. Ho tanti progetti aperti, italiani e internazionali, vediamo quale parte prima. Il Moro vorrei che diventasse una serie, vista la storia molto vasta di Alessandro de’ Medici che comprende anche molti altri personaggi.

Quanto è complicato fare questo lavoro?

Lo è, come lo sono tanti mestieri, ma bisogna avere fiducia. Io sono partita pensando di fare l’attrice, poi la mia strada è cambiata. Bisogna essere aperti ad accogliere e affrontare i percorsi che si aprono di fronte a noi.

Giulia Bianconi
28 Gennaio 2024

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