Adriano Valerio: “Il mio corto, da Tristan da Cunha a Cannes”


Sono 9, contro i 3.500 pervenuti, i cortometraggi che concorreranno per la Palma d’oro nella sezione a loro riservata al Festival di Cannes. Due gli italiani in gara (anche se entrambi prodotti dai francesi): Annarita Zambrano e Adriano Valerio. Quest’ultimo si è trasferito sei settimane nell’isola di Tristan da Cunha, a metà strada fra Città del Capo e Rio de Janiero, per girare il suo 37°4 S , titolo che indica con precisione a quanti gradi di latitudine si colloca uno dei posti più sperduti dell’emisfero. Adriano Valerio, milanese di origine e già autore di diversi cortometraggi, ormai lavora in Francia da dieci anni e ha raccontato a CinecittàNews la genesi di questo progetto – che ufficialmente passerà al festival il 25 maggio – la sua passione per i viaggi “che sono sempre delle scoperte”, e i suoi tanti progetti per il futuro.

Perché ha scelto proprio Tristan da Cunha per il suo film?
Tutto è cominciato con un incontro importante, quello con Loran Bonnardot, un medico che ha vissuto su quest’isola e ha stretto un forte legame con i suoi abitanti. Mi avevano molto colpito i suoi racconti. Loran mi parlava di una società in cui fino agli anni ’60 non si usava il denaro, in cui si viveva in una sorta di “utopia socialista”. E quindi mi affascinava l’idea di vivere un po’ di tempo in un luogo così, completamente isolato dal mondo: a Tristan vivono tra l’altro solo sette famiglie e di fare un’esperienza che fosse prima di tutto un’esperienza di vita.

A che tipo di lavoro pensava prima di partire e cosa invece ha girato alla luce di quello che poi ha scoperto?
Non avevo un’idea chiara. Né la volevo avere. Volevo arrivare sull’isola e capire cosa poteva offrirmi. È stato un puro esperimento per verificare se fosse possibile girare un lungometraggio di finzione. Questa è in realtà la preparazione di un film che ho già parzialmente sviluppato. Così, solo, con la mia macchina da presa, mi sono concentrato sulle persone che mi hanno colpito di più: due ragazzini, che si sono prestati a recitare qualcosa di molto vicino a loro: l’attaccamento per il posto in cui si nasce e si cresce e il desiderio di partire e scoprire nuove cose.


Un po’ quello che è capitato a lei: da anni vive e lavora all’estero viaggiando continuamente…
Sì, è vero, io sono partito molto presto dall’Italia, ma non tanto perché fossi scontento di quello che facevo, ma perché una serie di vicende personali e lavorative mi hanno convinto che la mia strada fosse fuori, a Parigi, dove ormai lavoro stabilmente. Quando posso comunque cerco sempre di lavorare in posti diversi, perché viaggiare per me è una passione, una scoperta, qualcosa che ogni volta mi arricchisce. A settembre, ad esempio, dovrebbe vedere la luce un mio corto girato a Beirut che fa parte di un collage di 8 film, girati ognuno in un luogo diverso e da differenti registi che hanno partecipato al Berlinale Talent Campus 2012. Inoltre ho da poco fondato l’associazione Camera Mundi, che si occupa di organizzare seminari di cinema in paesi in via di sviluppo.

E invece questo nuovo film, sempre ambientato a Tristan, di cosa parla?
È la storia di un geologo, inviato lì per capire, attraverso uno studio, se vicino a all’isola vengono fatti degli esperimenti nucleari. Questo scienziato tra l’altro arriva da Fukushima e si trova a rivivere un’esperienza analoga, perché il vulcano di Tristan comincia a dare inquietanti segni di risveglio. C’è quindi la paura per sé e per gli altri e i ricordi della tragedia giapponese riaffiorano. Una vicenda che trae ispirazione da un fatto vero. Nel 1961 infatti il vulcano provocò un terremoto violentissimo e gli abitanti riuscirono a essere evacuati grazie al passaggio di una nave olandese che li portò in Inghilterra per due mesi.

Nonostante le difficili condizioni di vita, dopo quell’episodio il paese si è ripopolato. Come lo spiega?
Effettivamente la vita a Tristan è molto diversa da quella che ci si può aspettare. Il rapporto con la natura è violentissimo, ma proprio per questo si vive in un’estrema libertà e tutte le cose che sono indispensabili alla nostra quotidianità laggiù diventano inutili.

La natura di cui parla, soprattutto in rapporto all’ambiente umano, ricorda da vicino quella di “Stromboli” di Roberto Rossellini. Ha visto quel film?
Sì, certo, rappresenta un pezzo fondamentale del cinema del nostro paese e non solo. Anche io in qualche modo ho cercato di pedinare cose e persone per arrivare ad esprimere il più possibile la verità di quella realtà.

E i suoi maestri chi sono?
Io non ho una formazione da cinefilo integralista. Ho studiato legge e poi sono approdato al cinema dopo aver preso parte a un seminario tenuto a Bobbio da Bellocchio; i registi che amo di più e a cui mi sento più vicini sono comunque Antonioni e Pialat.

E per quanto riguarda i nuovi progetti?
Sto preparando il mio primo lungometraggio: Banat, una commedia coprodotta da Italia, Romania e Francia, che tratta il tema dell’integrazione al contrario. Infatti la storia è quella di un italiano che finisce in Romania a gestire un’azienda agricola. Sono molto contento perché dopo tanto lavoro questo progetto ha ottenuto il sostegno del Programma Media della Comunità Europea.

 

E “37°4 S” dopo Cannes che circolazione avrà?
Sicuramente voglio presentarlo in altri festival e mi piacerebbe moltissimo fare l’anteprima italiana al TFF, una rassegna di altissima qualità e poi Torino è una città a cui sono molto affezionato.

13 Maggio 2013

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