Richard Gere: “La crisi? Colpa dell’avidità sconfinata”


Nel 2009 era stato qui al Festival di Roma per una lezione di cinema, adesso è tornato per ricevere il Marc’Aurelio. Più che un divo Richard Gere è un amico di famiglia, che fa piacere ritrovare sempre sorridente e disponibile, Un bel sessantenne che sa dare il giusto peso alle cose. L’ha ripetuto più volte nell’incontro con la stampa: “La mia famiglia e i miei maestri vengono al primo posto, il lavoro lo vivo senza aspettative”. Partito da New Delhi con un volo di linea, non sembra provato da jet lag, anzi confessa che viaggiare è una delle cose belle dell’essere attore, “perché viaggiare vuol dire conoscere”. Questa sera terrà fede a una promessa, mostrare al pubblico romano Days of Heaven, il secondo film di Terrence Malick e il primo in cui ebbe un ruolo da protagonista, ancora giovanissimo e piuttosto confuso dai modi di questo regista mitico e schivo. Days of Heaven è del 1987, sono passati tanti anni. “Allora avevo 26 anni, aspetto con ansia di rivederlo insieme a mia moglie, anche perché mi dicono che quella proposta qui al Festival è una copia perfetta”. Domani poi l’attore di successi planetari come American Gigolo, Ufficiale e gentiluomo e Pretty Woman riceverà il Marc’Aurelio già andato a Meryl Streep e Julianne Moore. Mentre il sindaco Alemanno gli ha voluto fare dono della Lupa capitolina. “Sono contento di incontrarlo, l’ho conosciuto nel 2009 e mi ha colpito per il suo interesse per il Tibet, ha assunto impegni concreti in questo senso e non ha mostrato di aver paura dei cinesi”. Già, perché il Tibet resta sempre in cima alla sua agenda politica.

Le fa piacere ricevere questi premi in Italia?
Amo l’Italia e amo Roma. Credo di aver avuto il primo premio internazionale proprio in Italia, il David di Donatello per Days of Heaven. Quanto al Marc’Aurelio, credo che non sia il classico premio che ti danno a fine corsa, quando stai per morire, ma un riconoscimento che ti incoraggia a continuare.

Come vede la Hollywood di oggi rispetto a quella dei suoi grandi successi?
Un tempo gli studios erano pronti a correre dei rischi, eravamo come pionieri armati di machete nella giungla. Adesso si fanno molti blockbuster in serie ed è diventato difficile trovare i soldi per fare piccoli film. Mi dispiace per i giovani.

Tutti sanno della sua fede buddista e del suo impegno per il Tibet. Ma ci racconta come e quando è diventato buddista?
Avevo poco più di vent’anni e provavo un disagio nei confronti dell’universo, come molte persone o forse tutte. Per capire meglio ho cominciato a ricercare e il buddismo mi ha colpito come un cammino per raggiungere la libertà. Tendiamo a vedere la realtà, noi stessi e gli altri con scetticismo, ma la pratica crea un rapporto più profondo con se stessi e sviluppa generosità, amore e senso di condivisione, provoca un’espansione dell’io. Sono fiducioso di essere sulla strada giusta per andare oltre la menzogna. Ma il buddismo non è un fine, è semplicemente il mezzo.

Pensa mai a produrre un film sul Tibet?
Ovviamente mi arrivano molte sceneggiature sull’argomento, ma in genere non sono eccezionali e forse, proprio perché questa causa mi sta tanto a cuore, sono particolarmente critico. Ma sono pronto a qualsiasi cosa per i fratelli e le sorelle del Tibet che soffrono moltissimo. Sono appena tornato dal Nepal, dove ci siamo riuniti nel 49° giorno dalla morte di uno dei miei maestri, una figura che ha avuto un’enorme influenza su di me.

E un film sul Dalai Lama?
Esiste già, è Kundun di Scorsese. Si potrebbe forse raccontare la storia del Dalai Lama dopo il ’59 cioè gli anni dell’esilio in India… 

Cosa pensa dell’attuale situazione di crisi economica mondiale. Al Festival abbiamo visto un film di Curtis Hanson, “Too Big to Fail”, che parla del crac della Lehamn Brothers e delle storture di Wall Street.
Non ho visto quel film, ma Inside Job, un documentario sullo stesso argomento, è stato uno dei miei film preferiti, l’ho anche votato agli Oscar. Siamo arrivati a questo punto per l’avidità sconfinata e l’irresponsabilità di chi ha il potere economico. È normale provare rabbia per questo perché è come se ci avessero stuprati e i responsabili, oltretutto, hanno fatto carriera. Oggi ci sono in tutto il mondo molte manifestazioni pacifiche e molta controinformazione in rete. Spero che in questo modo la gente si renda conto che questa avidità può essere sconfitta. Ma voglio ricordare le parole che mi disse un medico sandinista a cui chiedevo se avrebbe mai potuto perdonare gli americani… “Se non potessimo perdonare, a cosa sarebbe servita la rivoluzione?”.

Quando interpreta personaggi malvagi o negativi, sente che qualcosa le resta addosso?
I personaggi lasciano tutti un segno. Una volta ho chiesto a un mio maestro se dovessi fare attenzione a questo aspetto e lui mi ha risposto: non posso negare che un residuo minimo di quella negatività ti resterà addosso. I personaggi nascono da me, anche le parti negative mi appartengono, ma diciamo che questo serve anche ad apprendere.

La tecnologia sta radicalmente trasformando il cinema. Cosa ne pensa?
Ricordo che quando stavo girando Cotton Club e Francis Ford Coppola parlava di creare dei personaggi al computer, sembrava un pazzo. Invece oggi questo avviene veramente, col motion capture. Però alla fine si tratta sempre di raccontare storie, come avveniva un tempo attorno al fuoco. Quello che conta, che fa parte della nostra essenza, è il racconto. La tecnologia cambia rapidamente.

Ha ancora qualche sogno da realizzare?
I miei sogni riguardano mio figlio che ha 11 anni e che ha tutta la vita davanti e il Tibet. Non certo il cinema.

03 Novembre 2011

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