Nel Bush tra divi, spiriti e memoria

Il cinema in Australia tra le grandi metropoli come Sidney, Melbourne, Canberra e lo sterminato deserto del Bush, le barriere coralline e le grandi foreste della Nuova Zelanda


Se la Hollywood dei nostri giorni domina ancora nel mondo, il merito è anche degli “Aussies” e dei loro amici/rivali neozelandesi. Questa volta il mio viaggio mi porta in Australia tra le grandi metropoli come Sidney, Melbourne, Canberra e lo sterminato deserto del Bush, le barriere coralline e le grandi foreste della Nuova Zelanda, perché questa terra sconfinata ed eternamente sospesa tra assenza di radici e memorie ancestrali maori è stata, dagli anni ‘70 in poi, un serbatoio di talenti e opportunità difficile da eguagliare.

Prima dell’Ultima onda dei vari Peter Weir, Bruce Beresford, Fred Schepisi, George Miller, da quelle parti c’era poco o nulla, nonostante il primo filmato locale risalga al 1896 (per merito degli onnipresenti operatori Lumière) e una fioritura produttiva si registri all’inizio degli anni  Dieci del secolo scorso. Si può anzi dire che l’unico vero mito australiano sopravvissuto dagli inizi ad oggi sia un fuorilegge che ricompare a intervalli regolari, reinventato dai registi e amato dal pubblico: Ned Kelly. Ladro di cavalli, rapinatore di banche, “brigante” contro i soprusi della polizia inglese dello stato di Victoria, è il Robin Hood del Bush. Figlio di un ergastolano irlandese, capobanda della Kelly Gang insieme al fratello Dan e a due amici, affrontò per l’ultima volta la polizia il 28 giugno 1880 con un elmo in testa e una rudimentale corazza addosso. Unico sopravvissuto alla strage della gang, finì impiccato l’11 novembre, ad appena 25 anni, nonostante una petizione popolare con oltre 32.000 firme e una folla che ne chiedeva la grazia il giorno dell’esecuzione.

Perché questa storia è tanto importante in Australia da produrre un paio di libri, fumetti e quattro film (il primo del 1906 e l’ultimo del 2019)? Perché è una storia di bianchi che assomiglia alle gesta di Robin Hood ed ha le cadenze di una leggenda western che ricorda da vicino le banditesche imprese di Billy the Kid. Ma anche perché è capace di fare memoria in un paese talmente giovane da non avere tradizione. In verità c’erano voci potenti e altrettanto leggendarie in quello sterminato paese. Ma appartenevano agli aborigeni, razza sottomessa e fatta schiava dagli eredi dei forzati di Botany Bay, popolazioni fiere e anche oggi capaci di conservare un’identità, come e più dei nativi americani, nonostante un analogo tentativo di genocidio culturale. A loro il cinema australiano attinge solo casualmente fino all’avvento dell’Ultima Onda (titolo del film di Peter Weir del 1977 che proprio in questo mondo magico e millenario si avventura). E lo stesso regista ne coglieva il riflesso profondo già nel 1975 col suo capolavoro Picnic a Hanging Rock. Quella montagna, dove sparisce un gruppo di studentesse in gita il giorno di San Valentino del 1900, diventerà il simbolo dell’unione tra la cultura bianca dell’età vittoriana e l’antichissimo mistero degli stregoni aborigeni. Non sarà un caso che il successo mondiale di Mad Max girato da George Miller nel 1979 fonda a meraviglia questi due mondi che mai prima avevano comunicato. E non è un caso che il protagonista de L’ultima onda sia l’americano Richard Chamberlain (alias Dottor Kildaire, alias Padre Ralph in Uccelli di rovo, alias Allan Quatermain, padre spirituale di Indiana Jones), icona vivente di un cinema australiano che diventa fenomeno mondiale non appena contagia Hollywood.

Quasi vent’anni dopo i primi successi locali, è la neozelandese Jane Campion a suggellare la trasformazione con il personaggio dell’inglese di cultura maori George Baines (Harvey Keitel) che spalanca alla scozzese Ada l’accesso segreto a un mondo in cui la magia e la natura guidano le sorti degli uomini.

Oggi vediamo in tv la Haka, danza tribale degli All Blacks di rugby, adottiamo tatuaggi spesso iconici, sogniamo ad occhi aperti col mondo fatato del Signore degli anelli di Peter Jackson – interamente girato in Nuova Zelanda -, ma ben poco sappiamo ancora di questa terra. In compenso abbiamo un’intera generazione di divi che da lì provengono, si chiamino Hugh Jackman Cate BlanchettChris Hemsworth o Heath Ledger, Toni Collette o Margot Robbie, Russell Crowe o Mel Gibson (cresciuto in Australia dai 12 anni in poi).

Ma forse dimentichiamo che lo stesso Errol Flynn era tasmaniano e che il suo primo successo In the Wake of the Bounty (1933) è ambientato negli stessi mari del Sud  di “Master and Commander” (2003) di Peter Weir con Russell Crowe. Come si vede il sangue vivo del cinema australiano ha innervato quello americano a più riprese ma, dagli anni ’80 ad appena, ieri la “nouvelle vague” e la cultura aborigena si sono stemperate al sole di Hollywood producendo magari buoni registi (come Gillian Armstrong,  Stephan Elliot, Geoffrey Wright), due geni anomali come Baz Luhrmann e Peter Jackson, divi a ripetizione, racconti popolari ed esotici (Crocodile Dundee) e set ineguagliabili, ma smarrendo un’identità riconoscibile.

Ecco perché ha fatto scalpore l’unicità di Jennifer Kent che con Babadook (2014) e The Nightingale (2018) ha portato l’orrore e la paura nel contesto del Nuovo Continente. Si è molto detto sul fatto che proprio una donna trionfi col genere maschile per eccellenza; molto meno sul fatto che i suoi racconti traggano motivazione psicologica e terrore visuale dal territorio in cui si svolgono, sia esso al passato o nel presente. Lì vive l’anima insondabile dell’Australia e sarà interessante capire se col prossimo film di Kent (Alice + Freda Forever ambientato a Memphis alla fine dell’Ottocento) avverrà una nuova trasfusione di sangue in direzione americana oppure rimarrà  intatto un marchio di fabbrica che affonda nella millenaria cultura del magico.

08 Ottobre 2023

Il giro del mondo in 80 film

Il giro del mondo in 80 film

Quel giorno a Odessa

Partendo dalla celeberrima scalinata Potemkin di Odessa, un viaggio nella cinematografia dell'Ucraina che racconta un secolo di guerre e rivoluzioni

Il giro del mondo in 80 film

A Gerusalemme tra mito e tragedia

Da Exodus a Bye Bye Tiberiade, una viaggio cinematografico nella città simbolo della guerra israelo-palestinese

Il giro del mondo in 80 film

Malta, l’isola che non c’è

Il nostro giro del mondo attracca al Porto Grande di La Valletta. Non è caso l’isola si promuove come “Terra di storie” e ne contiene davvero molte

Il giro del mondo in 80 film

Tsui Hark e la leggenda di Hong Kong

Il cinema di Hong Kong è la terza potenza mondiale della celluloide e il regista e tycoon Tsui Hark è la perfetta sintesi di questo miracolo moderno


Ultimi aggiornamenti