Cinema nella terra del Fuji

In questo episodio de "Il giro del mondo in 80 cinema" esploriamo i più grandi maestri giapponesi


Due premi alla Mostra del Cinema il Giappone non li vedeva dai tempi d’oro di Takeshi Kitano; l’ultima volta – tre anni fa – solo il carisma di Kurosawa Kiyoshi lo aveva innalzato al Leone d’argento con il televisivo Supai Non Tsuma. Adesso invece abbiamo celebrato un passaggio generazionale con il maestro Tsukamoto Shinya (segnalato a Orizzonti) ad accompagnare fino al Leone d’Argento il più giovane Ryusuke Hamaguchi  (Il male non esiste) che però aveva già sulle spalle l’Oscar per Drive My Car (2021).

Per capire cosa è accaduto  all’ombra del Fujiyama e come ne sta rinascendo la leggenda dopo anni di oscuramento a favore delle grandi potenze Cina e Corea, bisogna risalire al 1998. Quell’anno muore il Tenno, “l’imperatore” Akira Kurosawa: 50 anni sul set e 30 regie che hanno fatto la storia. Dopo decenni di declino commerciale, la grande crisi degli Studios, uno status difeso con le unghie dai “grandi vecchi” (oltre al Tenno si possono citare anche Oshima, Imamura, il meno conosciuto all’estero Suzuki), la nuova generazione fatica ad accoppiare prestigio in patria e premi all’estero.

All’alba di questo 2023 anche talenti come Takeshi Kitano, Takashi Miike, Kurosawa Kiyoshi e il magistrale Hirokazu Kore’eda sembrano sentire il peso degli anni. Ciascuno di loro è capace di exploit convincenti (basti citare l’ultimo, il bellissimo Kub” di Kitano visto quest’anno a Cannes o Un affare di famiglia di Kore’eda vincitore della Palma d’oro 5 anni fa), ma ci vuole altro per riprendersi la vetta nel panorama asiatico. Alla fine bisogna ricorrere a un maestro che appare inossidabile, il mago dell’animazione Hayao Miyazaki (classe 1941) che inaugura il festival di San Sebastian con l’attesissimo Il ragazzo e l’airone.

La chiave di lettura è da un lato l’orgoglio nazionale che non consente a una delle cinematografie più antiche del mondo di restare in seconda  fila e dall’altro la varietà dei generi che il Giappone può schierare quando il suo sistema produttivo è in piena forma  e trova interpreti all’altezza.

Per trovare le radici di questo viaggio ad est bisogna risalire addirittura al 1896 quando a Kobe viene presentato  il kinetoscopio di Edison e subito dopo arriva il cinématographe dei Lumière importato dal fabbricante di seta Inabata che torna da Parigi con la licenza di proiettare e in compagnia di due cineoperatori che realizzano i primi reportage nelle strade di Tokyo, Osaka e Kobe.

La prima sala, il Dekinkan, apre nel 1903 e già le case di produzione locali organizzano i primi teatri di posa. Se tutti i primi film sono tributari del teatro kabuki e di una tradizione millenaria, le influenze occidentali (specie dalla grande letteratura russa) si fanno sentire già dagli anni Dieci quando si impone la figura del Benshi, “l’uomo parlante” che accompagna i film muti riassumendone la trama e interpretando le didascalie.

È un’abitudine che aiuterà a divulgare il cinema muto nelle campagne e avrà delle vere e proprie star (come il fratello maggiore di Kurosawa) che contrasteranno fino all’ultimo l’avvento del sonoro. Dopo Hollywood Tokyo è la prima capitale del cinema a organizzarsi con una propria versione delle Majors, assecondando quella voglia d’Occidente che contagia anche il Palazzo Imperiale all’alba del nuovo secolo: è l’ora di Nikkatsu, Tenkatsu (che sperimenterà senza successo anche il colore), Shochiku; più tardi si imporrà Toho.

La prima età dell’oro comincia dopo il grande terremoto del 1923 che mette in ginocchio il paese, ma lo spinge anche verso un profondo rinnovamento sociale e industriale, favorendo una massiccia importazione di modelli stranieri, spesso veicolati dal cinema. I grandi maestri del miglior cinema locale si chiamano Ozu, Mizoguchi, Naruse, Uchida che declinano – ciascuno in modo diverso – stili inconfondibili capaci di fare scuola: il realismo, il melodramma, l’epica storica.

C’è spazio anche per la commedia surreale che rimarrà un leit-motiv costante proprio come il racconto di spada. Il periodo nazionalista che sfocerà nella stretta dei militari e nella guerra a fianco della Germania (dal 1936 fino al ’45) toglierà voce ai maestri e costruirà l’epopea guerriera tra passato e presente. Ma è allora, esattamente nel 1943, che debutta il giovane Akira Kurosawa. Saranno lui e Kon Ichikawa a guidare la riscossa, mentre riprende fiato la generazione precedente. Inutile fare qui la lunga storia del cinema nipponico che viene scoperto in occidente proprio grazie a Kurosawa e Mizoguchi quando li adotta la Mostra di Venezia a partire da Rashomon e poi Vita di O’Haru donna galante.

Basterà dire che da un lato la prosperità degli studios lascerà deperire senza remore un immenso patrimonio archivistico (buona parte dei negativi d’anteguerra vengono distrutti per far posto a nuove produzioni), ma che nel solo 1960 giganti come le nuove compagnie (Daiei, Toei e Toho in prima fila) fanno uscire con successo addirittura 555 film.

Sembra esserci posto per tutti e nuovi generi conquistano il pubblico: il gangster movie sugli yakuza, la commedia erotica, i racconti di fantasmi, le anime ispirati alla nuova tradizione del manga, i film catastrofci frutto della paura nucleare con il boom di Godzilla firmato dall’ex assistente di Kurosawa Ishiro Honda nel 1955 e all’origine di un autentico filone.

Il declino commerciale comincia negli anni’70, ma lascia spazio a un cinema d’autore – debitore della nouvelle vague parigina – che vuole girare pagina e mette ai margini perfino il Tenno Kurosawa. Ormai totalmente sdoganato in Occidente, il cinema giapponese si prende la rivincita oltre i confini. L’astro di Nagisa Oshima con “Furyo” brilla per la prima volta a Cannes nel 1983, ma giusto 10 anni dopo sarà la volta di Takeshi Kitano, seguito dalla rivoluzione di Tsukamoto con Tetsuo, Naomi Kawase, Kurosawa Kiyoshi.

24 Settembre 2023

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