L’avvocata israeliana del diavolo o delle cause perse

Lea Tsemel da 50 anni difende i palestinesi nei tribunali israeliani in modo caparbio e professionale. Il suo ritratto in Advocate di Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche, presentato al Biografilm


BOLOGNA. Al Festival di Salonicco dei documentari Advocate, ritratto di Lea Tsemel, avvocata israeliana da anni impegnata nella difesa di imputati palestinesi, ha avuto due riconoscimenti, il premio Fipresci e l’Alexander d’oro, inoltre ha vinto il DocAviv Film Festival. La ministra israeliana della cultura Miri Regev ha criticato la probabile candidatura del film agli Oscar 2020 in quanto non lo ritiene rappresentativo di Israele. Per la coregista del film Rachel Leah Jones è un falso problema: “Le candidature nella sezione Doc dell’Academy valgono di per sé non in quanto rappresentative di un paese. E poi il film grazie al primo premio avuto in Grecia è già eleggibile per gli Oscar”. La questione sostanziale? “Non vengono visti favorevolmente quei film che affrontano tematiche o narrazioni non in linea con le posizioni politiche dell’attuale governo per la quinta volta presieduto da Netanyahu. Cioè nulla contro la libertà di espressione di ciascuno, ma quando si affrontano tematiche di questo genere non si può chiedere un finanziamento pubblico”, spiega la coautrice di Advocate, presentato nella sezione ‘Contemporary Lives’ del Biografilm.

Il personaggio poco gradito all’attuale governo è per l’appunto la sua connazionale 74enne Lea Tsemel, figura di spicco della sinistra radicale – insieme al marito Michael “Mikado” Warschawski – e nata da genitori provenienti dalla Bielorussia e dalla Polonia, arrivati in Palestina negli anni ’30, fuggendo dalla Shoah. Lea Tsemel è quasi da 50 anni l’avvocato del diavolo per alcuni, per altri delle cause perse, quelle che vedono imputati i palestinesi nei tribunali israeliani, e che lei difende in modo caparbio e professionale al massimo, sostenitrice innanzitutto dei diritti umani. Per la maggior parte degli israeliani difende l’indifendibile. Per i palestinesi invece, più che un avvocato, è un’alleata che non si risparmia anche nella difesa dei casi più difficili,  una forza della natura, come ci mostra il film, che sfida le dure critiche degli oppositori.

Gran parte del film la mostra mentre è impegnata sul fronte delle vicende legali e dei processi. La macchina da presa la pedina nel suo studio mentre incontra e spiega alle famiglie dei detenuti arabi la strategia difensiva che adotterà durante il processo. E di nuovo l’obiettivo non la molla mentre fuori dall’aula del processo consiglia e sostiene l’imputato aggiornandolo sulla strategia difensiva che di lì a poco svolgerà davanti alla Corte. O ancora mentre risponde in modo diretto e argomentato sul caso difeso davanti a telecamere e microfoni. A completare il ritratto ci sono poi spezzoni di vicende precedenti della suo impegno politico e professionale, oltre alle testimonianze del marito e dei due figli.

La regista ha conosciuto Lea 26 anni fa e da subito ha pensato che sarebbe stato un soggetto perfetto per un film. Trascorrono gli anni, nessuno prova a raccontare Lea, e Rachel Leah Jones pensa bene che è giunto il momento di farlo con l’aiuto di Philippe Bellaiche che oltre ad essere il coregista è anche l’operatore. “Bellaiche ha visto subito in lei l’essenza del cinema verità per il suo modo naturale di essere se stessa, non recitando e dimenticandosi della presenza della macchina da presa”. Lea ci tiene a precisare che non si tratta di un film sulla sua persona, “ma sulla figura di un qualsiasi avvocato che si trovi a difendere, sia in istanze civili che penali, le atrocità che vengono commesse quotidianamente contro la popolazione palestinese. Ciascuno di noi, non sono l’unica, si trova ogni giorno ad affrontare nuovi processi, nuovi eventi e bisogna lavorare sodo “.

“Durante la preparazione del film abbiamo affrontato i casi storici della carriera di Lea, aspettando di imbatterci in un caso attuale, riferibile al presente, che avremmo potuto seguire nel suo svolgersi – spiega l’autrice – Ed è arrivato il caso del tredicenne palestinese, con la sua capacità di tenere testa all’interrogatorio, di difendersi. Un caso che testimonia la tragedia di questi ragazzini che si sentono in dovere di continuare la lotta  che noi adulti, palestinesi o israeliani, non siamo stati in grado di condurre a buon fine. E ciò ha aggiunto tragedia su tragedia. Poi è arrivato il caso della giovane donna palestinese che ci ha consentito di combinare la narrazione del presente. Ancora una volta infatti si tratta di due vittime che sono costrette a diventare a loro volta esecutori di un ‘reato’ per disperazione. Abbiamo così messo da parte nella narrazione le cause passate di Lea e inoltre abbiamo contestualizzato storicamente la sua figura nell’esercizio della professione: abbiamo incorniciato questi due casi nella storia della sua vita”.

Nella storia di Lea c’è anche una vittoria registrata dal film, quando la Corte Suprema israeliana decreta il divieto all’impiego di qualsiasi metodo coercitivo da parte delle autorità durante gli interrogatori di persone arrestate, pratica a volte utilizzata per strappare una confessione. “E’ vero che spesso perdo ma questa sentenza contro l’utilizzo dei metodi di tortura mi ha dato un momento di felicità – dice Lea Tsemel – Certo è stata una soddisfazione temporanea, perché poi hanno aggirato la sentenza, creando nuove regole ed eccezioni, consentendo ai servizi segreti il ricorso a quei metodi illegali  in determinati interrogatori. La dolcezza di quel momento si è sciolta nella realtà così dura che viviamo, a cominciare dai palestinesi, in Israele. A chi mi chiede perché continuo questo mio impegno, rispondo che è importante esserci, che ci deve essere un sentimento condiviso di umanità”.

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