TORINO – Una scarpa da ginnastica perfettamente bianca incorniciata come un’opera d’arte o, meglio, come qualcosa di sacro. È questo il primo frame di Holy Shoes che promette già tantissimo di quello che andremo a vedere: in primis, la centralità della scarpa come oggetto feticcio attorno a cui girerà tutta la trama. Il primo film da regista di Luigi Di Capua, membro del gruppo comico celebre sul web The Pills e apprezzato sceneggiatore di commedie per il cinema e la tv, è stato presentato fuori concorso al 41° Torino Film Festival, imponendosi da subito come un film coinvolgente e ispirato.
Holy Shoes è un film corale, una commedia nera tendente al dramma puro, in cui quattro storie ambientate a Roma si sfiorano fino a toccarsi in alcuni punti: unico elemento comune è la centralità della scarpa, in particolare un modello di sneakers estremamente costose: le Typo. “Il modello al centro del film si ispira alla Balenciaga triple S. – spiega Di Capua – Sono uscite circa 5 anni fa e costano più o meno 800 euro, nonostante ciò, hanno spopolato nelle grandi metropoli. Vedevi ovunque ragazzini con queste scarpe che costavano metà dello stipendio dei loro genitori. Era una necessità impellente, smattavano. C’è sempre stato questa moda delle scarpe, anche quando ero ragazzo io, ma non costavano così tanto. Nel momento in cui l’alta moda entra nella street culture è diverso dalle scarpe da 150 euro. Anche i cellulari sono uno status quo, ma la scarpa è un oggetto infinitamente più cinematografico, più bello e sinuoso di quanto possa essere un i-phone. La scarpa porta con sé un valore anche più parossistico, perché è l’indumento più importante, la prima cosa che ci serve per uscire di casa. Gli abbiamo dato un valore gigante, molto più grande di quello che dovrebbe avere”.
Protagonisti della storia sono quattro, ognuno appartenente a una generazione e fascia sociale diversa. C’è lo scapestrato adolescente, interpretato da Raffaele Argesanu, che prova a rubare un paio di Typo per regalarle a una sua compagna di scuola più abbiente (Ludovica Nasti) di cui è innamorato. C’è la giovane immigrata asiatica (Tiffany Zhou) che prova a entrare nel commercio di scarpe false per inseguire il suo sogno di studiare negli States. C’è il quarantenne interpretato da Simone Liberati che si è arricchito vendendo sneakers costose e rare, ma che ora, per il suo stile di vita sopra le righe, rischia di perdere il rapporto con il figlio affidato alla ex-moglie. Infine, c’è la donna matura (Carla Signoris) che, frustrata da un matrimonio senza più stimoli, trova nuova linfa vitale nell’amicizia con una donna più giovane (Isabella Briganti) che, a causa di un grave incidente, dovrà rinunciare alla sua costosissima collezione di scarpe da donna.
“Il film nasce con il desiderio di indagare il rapporto disfunzionale tra oggetti ed esseri umani in una società dove vige la tirannia del desiderio, una società iper-consumistica, dove in qualche modo utilizziamo gli oggetti per definirci nel mondo. – racconta il regista – È un processo di analisi che io ho fatto nei confronti della società che cresce un po’ step by step. Una delle prime cose che mi ha colpito è quando ho incontrato un pusher 27enne con due figli. Quando gli ho chiesto perché rischia tutto per continuare a spacciare mi ha risposto: io non spaccio per far campare la mia famiglia, io spaccio per comprare le Jimmy Choo a mia moglie. Questa frase è stato il primo clic. Ho iniziato a chiedermi: cosa sono disposte a fare le persone per cercare di raggiungere i propri desideri. Cosa cerchiamo dagli oggetti? È qualcosa che colpisce tutti, indipendentemente dalla propria classe sociale, anzi meno sei abbiente più hai bisogno di comprare, per mostrare”.
Quella rappresentata in Holy Shoes è una comunità dilaniata del consumismo, in cui omologarsi conta più di distinguersi e dove la finzione ha la stessa dignità della verità. In particolare l’universo maschile viene rappresentato come schiavo di questi meccanismi, andando un po’ contro lo stereotipo che lega le donne alle scarpe costose. “Il film affronta una certa mascolinità che non si sente mai troppo all’altezza. – conclude Di Capua – I personaggi maschili di questo film hanno un grado molto alto di mascolinità. È molto contemporaneo il fatto che la moda delle scarpe, o meglio delle sneakers, sia quasi interamente maschile”. Ciò che ne emerge è un film intenso e sfaccettato, in cui tutti gli interpreti brillano nei rispettivi ruoli, regalandoci un film che offre un quadro spietato della nostra società, sempre più legata ai consumi e sempre meno alle persone.
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