PESARO – Tiene il conto con le dita, Luca Guadagnino, mentre elenca tutti i film su cui è all’opera. “Dovrebbero essere quattro” arriva a concludere, ma mentre parla al pubblico della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, di cui è ospite d’onore, si torna spesso a rifare il conto. Documentari, adattamenti; c’è di tutto. Che sia uno dei registi più chiacchierati e impegnati è chiaro da qualche anno, almeno da Call me by your name, che nel 2017 lo ha definitivamente consacrato a livello internazionale. Ora, dopo il successo di Challengers, sta chiudendo Queer, adattamento dell’omonimo romanzo di William Seward Burroughs. “Manca giusto il mix”, poi, l’8 luglio, si sposterà su un nuovo set.
“Queer sarà il mio film più personale”, promette Guadagnino, che ha girato il film presso gli studi di Cinecittà con l’ex James Bond Daniel Craig come protagonista. “È un omaggio a Powell e Pressburger. Ho visto Scarpette rosse almeno 50 volte e penso che di Queer apprezzerebbero le scene di sesso, che sono numerose e abbastanza scandalose”. Nel film, rivela, avranno un ruolo anche 3 famosi registi: David Lowery, Ariel Schulman e Lisandro Alonso.
Sarà poi il turno di After the Hunt, con Julia Roberts, Andrew Garfield e Ayo Edebiri. “Un cast magnifico per un film che è una dedica al cinema bergmaniano di Woody Allen”. In cantiere anche Camere Separate, dal romanzo di Pier Vittorio Tondelli, e un nuovo documentario su Bernardo Bertolucci, a cui già dedicò Bertolucci on Bertolucci. “Si intitolerà Joie de vivre e parlerà del mio rapporto con lui, con Bernardo, qui e ora”.
Guadagnino parla del proprio cinema senza tracciare confini interni, anzi, includendo tutto, dall’opera più breve alla sua unica serie tv, We are who we are. Per iniziare a tenere traccia di questo corpus, sempre più ampio e ricco, Alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro è stata presentata la prima monografia a lui dedicata, Spettri del desiderio. Il cinema e i film di Luca Guadagnino, a cura di Simone Emiliani e Cecilia Ermini; un’ istantanea di un cinema rivolto al futuro, che vuole creare “prototipi e mai prodotti”.
“Per dichiarare morto il cinema bisogna capire cosa è e come appare ai nostri occhi”, commenta. “Non siamo a secco di punti di vista sul cinema che possano mettere in atto una prospettiva che scardini il pensiero di chi guarda. A me interessa quello, come spettatore e come regista”. Guadagnino si è innamorato del cinema a 11 anni, grazie alla Nouvelle Vague. “Senza quell’incontro, avrei fatto un altro lavoro”. Come i maestri della scuola francese – “una vera e propria epifania, nulla poteva essere come prima dopo la Nouvelle Vague” – è stato prima critico, e poi regista; un doppio ruolo che incarna ancora oggi nel proprio cinema, inquadratura dopo inquadratura. “Ci hanno insegnato che ogni film parla di cinema e ogni immagine è una riflessione sulle immagini”.
Tutto, per Guadagnino, può diventare cinema. “Sono cavalli di Troia, per dire che nulla è come sembra, per raccontare qualcosa attraverso un’altra”. Come Challengers, che usa lo sport per dire tutt’altro, per mostrare corpi in movimento anche se a lui, del tennis, non interessa davvero nulla. “Tutto è un macguffin. A me appassiona osservare i corpi nello spazio, i dettagli di una nuca, di un collo. Quando scelgo i miei attori non mi interessa che siano bravi a recitare, cerco una tridimensionalità che possa essere catturata con la macchina da presa”. L’importante, sottolinea, è che l’idea di un film non lo metta mai in una posizione comoda.
Come macguffin, la politica manca ancora nel suo cinema. Guadagnino però la segue tutti i giorni: “Ci ho provato a fare un film politico. Si chiamava Dentro Fuori e parlava di mafia, ma non mi convinceva”. Ad affascinarlo è un momento preciso della storia italiana, “quando tutto cambia”, dalle repressioni di fine anni ’70 in poi. “Lì succede qualcosa di raggelante che andrebbe raccontato, una torsione molto forte e violenta che cambia per sempre la nostra società”.
In fondo alla lunga lista di produzioni, c’è ancora spazio per sognare dell’altro, anche l’Opera lirica. “Ho conversazioni molto appassionanti con importanti direttori di teatri dell’Opera, ma bisogna incrociare le loro esigenze di calendario con le mie”. Ovviamente, ha già in mente un titolo: “Vorrei fare La morte di Klinghoffer di John Adams“.
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