La maledizione di Fronte del porto

70 anni del capolavoro diretto da Elia Kazan. 8 Oscar vinti, il Leone d’argento di Venezia, decine di riconoscimenti e nomination e la memorabile colonna sonora di Leonard Bernstein. Ecco perché il film con Marlon Brando è tra i più grandi titoli del cinema americano classico


Sono passati 70 anni dalla “prima” di Fronte del porto, capolavoro che costruì il mito di Marlon Brando e segnò per tutta la vita il suo regista Elia Kazan fin dalla sera del debutto, il 29 luglio del 1954. Eppure le polemiche e i distinguo tra gli appassionati tengono ancora banco, benché la storia del cinema collochi il film ormai stabilmente tra i più grandi del cinema americano classico, con otto Oscar vinti, il Leone d’argento di Venezia al regista, decine di riconoscimenti e nomination, e la memorabile colonna sonora di Leonard Bernstein (quello di West Side Story).

Perché se ne parla quindi ancora oggi? La storia comincia sei anni prima, nel 1948, quando il giornalista d’inchiesta Malcolm Johnson pubblica 24 articoli sul malaffare ai docks del porto di Hoboken nel New Jersey (è il porto commerciale di New York) con cui vincerà il Premio Pulitzer nel 1949. Lo sceneggiatore Budd Schulberg fiuta il potenziale cinematografico dell’inchiesta dopo una serie di omicidi e scandali che coinvolgono la famiglia mafiosa di Albert Anastasia, gli affari di Meyer Lansky (ricordate Il padrino?) e il potente boss del sindacato dei portuali Joseph Ryan. Legge il libro di Johnson, spende mesi di ricerche direttamente al porto e si presenta con una sceneggiatura (oggi pubblicata da Sellerio in Italia).

Nel frattempo, Elia Kazan ha coinvolto Arthur Miller ma questi, sul più bello, si ritira dopo aver scritto a sua volta un copione. A quel punto Kazan ritorna sui suoi passi, si mette a scrivere con Schulberg e si propone alla Columbia. Qui la storia ha due versioni: la prima racconta che, alla proposta di farne un mainstream a colori, il regista rifiuta e chiede soccorso all’amico Sam Spiegel che accetta a titolo personale a condizione di lavorare con un piccolo budget (meno di un milione di dollari del tempo, girando in esterni e in bianco e nero, sul modello del realismo alla Jules Dassin). La seconda leggenda sostiene che nel frattempo Hollywood ha fatto il vuoto intorno al regista di Un tram che si chiama desiderio e solo un miracolo personale può cambiare le cose.

Cosa è successo? Il 14 gennaio 1952, Elia Kazan, regista, produttore e scrittore tra i più celebri del panorama cinematografico e più in generale della realtà culturale americana degli anni trenta-quaranta, viene chiamato a deporre per simpatie comuniste davanti alla Commissione McCarthy. Prima riconosce di esserne stato un sostenitore per pochi mesi negli anni Trenta, come moltissimi a Hollywood, ma si rifiuta di fare i nomi dei suoi colleghi. Poi ci ripensa e denuncia undici persone tra cui Dassin e Kim Hunter che aveva diretto proprio in Un tram che si chiama desiderio. Da quel momento diventa un “paria” nel milieu culturale e questo spiega perché Miller – l’autore de Il crogiolo ispirato alla follia anticomunista dell’America di McCarthy – lo abbandoni.

Quando Fronte del porto esce, è chiaro a tutti che dietro la storia del pugile fallito Terry – isolato nel mondo del porto perché ha denunciato il boss dei docks Johnny Friendly – c’è l’autodafè del regista e la sua rivendicazione di essere “un uomo qualunque, non un eroe, ma comunque in buona fede”. Restano i fatti però: alcuni dei denunciati da Kazan ebbero la carriera distrutta, a lungo il suo nome fu sinonimo di “pentito” e “traditore” (Orson Welles disse di lui “È un uomo che ha venduto a McCarthy tutti i suoi compagni per poi girare Fronte del porto, che era la celebrazione di un delatore”), ma la sua carriera continuò con l’aura del maestro tra successi come La valle dell’Eden, Babydoll, Un volto tra la folla, Splendore nell’erba fino allo splendido e misconosciuto Gli ultimi fuochi del 1976.

Che Fronte del porto sia un capolavoro è fuori discussione come il fatto che il suo sottotesto sia sincero anche nel denunciare il corporativismo feroce di una certa Hollywood. Forse però non sarebbe ricordato così senza Marlon Brando e lo straordinario cast che comunque accettò di lavorare al film, dall’esordiente Eva Marie Saint a Rod Steiger (il fratello colluso), Lee J. Cobb (l’ignobile Friendly, il cui nome dice tutto), Karl Malden (il prete che convince Terry a denunciare invece di farsi giustizia da solo). Fa sentenza il giudizio finale di Martin Scorsese su Brando: “Quando guardi il suo lavoro in Fronte del porto stai guardando la poesia più pura che si possa immaginare, in modo dinamico. In movimento. Tutto ciò che sappiamo sul potere della recitazione sul grande schermo si riferisce a lui”. Il bello è che il protagonista non voleva fare il film, respinse tre volte l’offerta e, anche quando lo vide per la prima volta al montaggio, si giudicò bel al di sotto della sufficienza: “A fine proiezione – ha scritto – mi sentivo così a disagio che rimasi muto, mi vedevo incapace e goffo”. Kazan invece voleva soltanto lui; per convincerlo prima ricorse a offrire il ruolo a Frank Sinatra (che non chiedeva di meglio come del resto Spiegel) e poi fece provini alla giovane coppia Paul Newman/Joanne Woodward per ingelosire il suo preferito. Quando finalmente ottenne il sospirato “sì”, dovette incassare la rinuncia di Grace Kelly (che scelse di andare con Hitchcock) e convocò la debuttante Marie Saint. La chimica immediata tra lei e Brando fece il resto, come del resto quella con Rod Steiger che esaltò il “metodo” di Brando nella celebratissima scena del confronto fra i due fratelli che resta in tutti i manuali di recitazione come una vetta insuperabile.

Ogni film porta con sé mille aneddoti: in questo caso l’adesione spontanea di moltissimi portuali che recitarono se stessi vedendo nel film un riscatto della ritrovata dignità della categoria, o il fatto che la citata scena del dialogo in taxi tra Terry e Charlie Malloy sia stata girata in un angolo dismesso di uno Studio mettendo le tendine per coprire il lunotto posteriore e mascherare la cruda realtà, solo perché Spiegel si era dimenticato di pagare l’affitto del set. E perfino che a questo film siano affidate le uniche immagini “americane” del transatlantico Andrea Doria che casualmente finì nell’inquadratura.

Ma niente di tutto questo ci offre le vere ragioni per definire Fronte del porto un capolavoro senza tempo. Più giusto dire che la sceneggiatura è un perfetto esempio della partizione in tre atti come nella tragedia greca, che il sostrato “cristologico” della redenzione di Terry esalta il dramma della colpa da cui Kazan si voleva liberare, che il realismo delle riprese in un gelido inverno spazzato dal vento polare conferisce al film una dimensione “neorealista” allora quasi sconosciuta alla cultura americana. Se Fronte del porto è il film eponimo di Marlon Brando, è soprattutto la bandiera di un grande maestro, un regista emigrato bambino dalla natia Anatolia, marchiato a fuoco dal senso di essere sempre e comunque un emarginato nella sua “terra promessa”: Elia Kazan è l’inquieto ribelle senza patria che a Hollywood aveva cercato legittimazione e ne fu respinto per un gesto di umanissima viltà.

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21 Luglio 2024

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