Alberto Barbera: “L’Italia torna a vincere, ma attenti alla crisi di idee”

Abbiamo incontrato il direttore della Mostra per un bilancio del festival e del lavoro della giuria. Che all'unanimità ha assegnato solo la Coppa Volpi all'attore greco di "Miss Violence"


VENEZIA – Con un +20% di biglietti venduti (ma incassi in crescita solo dell’11% perché è sceso il costo medio dell’ingresso) e un incasso totale di 1.380.000 €, la Mostra numero 70 sembra aver contenuto gli effetti della crisi. Ma neppure il Leone tornato all’Italia dopo 15 anni – e gli altri premi importanti, dalla Coppa Volpi a Elena Cotta al riconoscimento a Uberto Pasolini – riesce ad arginare la crisi culturale della nostra produzione.  “Abbiamo visto 155 film italiani, 77 documentari e circa 200 corti – spiega il direttore Alberto Barbera a fine festival – Ma alla quantità non corrisponde la qualità: c’è stato decisamente un abbassamento. Negli anni ‘90 i nostri film erano inguardabili. Poi abbiamo avuto un recupero negli anni 2000 e adesso non possiamo abbassare l’asticella”.

Quali sono i motivi di questo abbassamento della qualità? Congiunturali, economici o piuttosto culturali e di crisi morale del paese che si riflette anche nella costruzione di immaginario?

Sicuramente ci sono meno soldi e così i film si fanno più in fretta, tirando via, la post produzione viene fatta di corsa, si insegue il successo facile con commedie di dubbio gusto. Siamo un mercato in grave difficoltà in tutte le sue componenti. L’esercizio è quello che soffre di più, ma i problemi riguardano tutti. 

La vittoria di un film italiano, “Sacro GRA”, si può attribuire al presidente Bertolucci? Anche quando vinse “Così ridevano” era un italiano, Ettore Scola, a capeggiare i giurati. Vede un collegamento?

Non direi. Ci sono stati presidenti italiani che non hanno premiato film italiani. Questa dietrologia è tipico frutto della tendenza a polemizzare sui premi. Nove persone che vengono da nove paesi diversi hanno condiviso queste scelte, anche se non all’unanimità.

C’è chi dice che un palmarès come questo, molto radicale, possa allontanare ulteriormente il pubblico che già tende a disertare le sale.

C’è chi si lamenta di festival troppo supini all’industria e chi si lamenta di festival troppo astratti. La selezione di quest’anno aveva una varietà estrema che andava da Philomena di Frears a Cani randagi di Tsai Ming-liang. Il festival non poteva che rappresentare le contraddizioni di un cinema, come quello contemporaneo, frammentato, esploso. Negli anni ‘50 l’industria stessa favoriva sia il cinema d’autore che i generi. Mentre il mercato oggi non è in grado di assorbire questa distinzione. Ma non è che facendo vincere il Leone d’oro a Philomena aiutiamo il mercato. Trovo il verdetto equilibrato, capace di fotografare questa contraddittorietà. Siamo alla ricerca di un nuovo assetto che non c’è e il cinema che soffre di più è quello d’autore. Ma se scompare anche dai festival, non ci sarà più.

Come ha lavorato la giuria?

Ha deciso in tre ore e mezza, senza nessuna rissa, hanno discusso senza contrapposizioni frontali. Bernardo non è stato per nulla prevaricatore, non ha imposto alcuna scelta, molti premi sono stati sostenuti da altri e alcune sue scelte hanno trovato larga maggioranza. Nessuno era in una condizione di sudditanza verso di lui. È vero che il leone non è stato deciso all’unanimità, ma nessuno si è detto contro.

“L’intrepido” di Amelio è stato preso in considerazione?

Certo.

C’è stato un duello tra le due lady della scena, Elena Cotta e Judi Dench?

Per quanto possa sembrare strano non è stato Bernardo a sostenere la candidatura di Elena Cotta, ma altri tre giurati, anche se non vi dico quali. C’era una rosa di tre o quattro attrici. Alla fine ha prevalso lei. L’unico premio deciso all’unanimità è stato la Coppa Volpi per l’attore greco.

Perché tanta insistenza sulle patologie e la violenza familiare?

I film sulla disgregazione della famiglia erano molti di più di quelli che abbiamo scelto, si poteva fare un intero festival sul tema. Il cinema evidentemente riflette una società in disgregazione.

Le dispiace non aver avuto in concorso “Locke”?

Avrei voluto, è stata una delle sorprese di questa Mostra. Non l’ho potuto fare per vari motivi che non sto qui a spiegare. Ma è andato benissimo, è stato comprato dalla Good Films per l’Italia e i produttori sono soddisfatti. Comunque capita sempre con qualche titolo di Orizzonti: l’anno scorso c’era L’intervallo. Avere una sezione parallela forte aiuta, è un bene, ma la cosa più difficile in un festival è azzeccare la collocazione dei film.

E “Still Life” di Uberto Pasolini?

È uno dei primi film che ho visto, a marzo, e non potevo invitarlo subito, era troppo presto. Ho detto a Uberto di aspettare ed è stato paziente. L’ho chiamato il 10 luglio per confermare l’invito.

Le pesa la concorrenza di Toronto?

È un dato di fatto da almeno 10 anni. Toronto, non essendo competitiva, ha il privilegio di non dover dire dei no, invita tutti, ma chiede ai film la prima mondiale per ragioni di semplice prestigio. Comunque l’unico film che mi è dispiaciuto non avere è stato 12 years a slave di Steve McQueen, mentre Luchetti ha preferito non venire a Venezia e l’ha detto da subito. Gli altri film di Toronto li ho visti tutti ma ho preferito non prenderli. 

08 Settembre 2013

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