Ricci: “Per Levi-Montalcini un omaggio d’amore, non una caricatura”

Ricci: “Per Levi-Montalcini un omaggio d’amore, non una caricatura”


Rita nasceva torinese nell’aprile del 1909, camminando per l’intero Secolo, fino al dicembre 2012: più di cento anni, in cui la donnina esile – nel fisico, non di certo nello spirito – s’è fatta spazio nel mondo, nel nome della Medicina, a cui è stata dedita e fedele sempre, tanto da essere anche insignita del premio Nobel (1986) per gli studi con cui scoprì e identificò il Fattore di Accrescimento della fibra Nervosa (Nerve Growth Factor – NGF), nella fattispecie della struttura assonale: la signora Levi-Montalcini, neurologa, accademica – prima donna a essere ammessa alla Pontificia Accademia delle Scienze – e poi anche senatrice “a vita” della Repubblica (2001) “per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”, è protagonista di un film biograficoRita Levi-Montalcini, il titolo – interpretato da Elena Sofia Ricci, diretta da Alberto Negrin, in prima serata su Rai Uno il 26 novembre (co-produzione Rai Fiction-Cosmo Productions EU), liberamente ispirato al libro autobiografico Cantico di una vita

Sorella gemella di Paola, pittrice, i Levi – con anche Anna e Gino – erano figli di Adamo e Adele Montalcini, ebrei sefarditi, Credo che nel periodo delle Leggi Razziali li costrinse alla fuga in Belgio, riuscendo però a sopravvivere all’Olocausto: una precoce Rita, a 21 anni, entra nella Scuola Medica dell’istologo Giuseppe Levi (padre di Natalia Ginzburg, nel film Franco Castellano) e lì comincia gli studi sul sistema nervoso, mai abbandonati per il resto della vita. 

La Levi-Montalcini interpretata da Elena Sofia Ricci ha certamente una verosimiglianza estetica (trucco di Antonella Negri/Gabriella Trani e costumi di Lia Francesca Morandini), seppur non si sia optato perché l’attrice divenisse “una maschera a calco” della scienziata, scelta apprezzabile perché capace di conservare l’eco iconico della Professoressa, ma anche l’anima viva dell’interprete, che – molto con lo sguardo e la mimica del volto – dona al personaggio una gamma di sfumature emotive variegata e completa, restituendo un profilo femminile volitivo quanto delicatissimo, determinato ma non meno ricco d’una empatia rara; s’apprezza un sofisticato lavoro sulla voce, che l’attrice pennella su quella, quasi soffiata e appena roca, della scienziata, così come s’è appropriata del suo passo, deciso eppure appena “incerto”, tutti “dettagli” imprescindibili a restituire la veridicità della persona reale, senza sfiorare il grottesco. “Un lavoro piuttosto minuzioso”, lo definisce Elena Sofia Ricci, che spiega come “la costruzione dei personaggi mi deriva dal teatro: i movimenti non sono mai casuali. Ho avuto accanto Emanuela Aureli, grande imitatrice della Professoressa, che mi ha fatto un pò da coach, e abbiamo accennato un’imitazione: rapida nel modo di parlare, un eloquio veloce che s’avvicinasse a quello della Montalcini centenaria, per poi ‘togliere’, questo perché volevamo omaggiarla, ma non che fosse una caricatura. S’è scelto di renderla una via di mezzo tra lei a 77-78 anni – camminava ancora drittissima nella realtà, come ci bacchettava a promemoria la nipote Piera, che ci ha fatto da consulente – e quella che noi ricordiamo meglio, più adulta. È stato un lavoro atto a mettere insieme quelle 2-3 cose che ce la ricordassero con amore, con Negrin che, dove necessario, mi guidava dicendo: ‘un pò meno Montalcini’ o ‘un po’ meno Elena Sofia’. Ci ho lavorato tanto, con amore appunto e – tiene a ribadire l’attrice – per farle un omaggio, non una caricatura”. 

Il film sceglie di prendere vita dall’apice della carriera scientifica della signora Levi-Montalcini e analizza il dilemma morale che le ha reso amari gli ultimi anni di vita professionale, ovvero l’impossibilità di trovare un’applicazione clinica alla sua scoperta scientifica, il Fattore di Accrescimento Nervoso (NGF). Nel biopic per la tv s’innesta una vicenda di fantasia – per permettere un racconto popolare empatico -, quella della violinista (musiche di Paolo Vivaldi), dodicenne, Elena (Elisa Carletti), che rischia la perdita della vista, spunto per innescare il meccanismo per la messa in scena della battaglia morale che la scienziata stabilisce con se stessa: da un lato, il polo del timore di fallire e quindi la tentazione di sedersi sugli allori della fama; dall’altro, quello della sfida rischiosa di rimettersi in gioco, quasi al termine della sua prestigiosa carriera. Ma il desiderio di rispettare e celebrare la Scienza vince sull’orgoglio e sulle paure, così torna in laboratorio, dimostrando che la Ricerca e la Scienza non si possano arrestare: sebbene siano state troppe le delusioni nel tempo, Rita Levi-Montalcini trascorre notti e giorni al microscopio, insieme ai suoi collaboratori – Franco (Luca Angeletti) e l’oculista Lamberti (Ernesto D’Argenio) -, approfondendo tutti i documenti delle ricerche compiute in passato, con l’auspicio d’imbattersi in un dettaglio trascurato o un errore. L’NGF, infine, viene sintetizzato in forma di collirio ed è la scienziata stessa a portarlo a Elena, ad assisterla nei giorni con gli occhi socchiusi, che attendono si sapere se tornerà a vedere la luce, e con lei – metaforicamente – anche la signora Levi-Montalcini. 

“Tutte le sue fragilità, le piccole vanità, le inadeguatezze, riguardano un po’ tutte noi donne, per cui lei è un monumento, ma queste sue incertezze ce la rendono meravigliosamente vicina. Vedere che anche lei avesse questi momenti di fragilità ce la rende prossima e ci restituisce la sensazione che quello che ha fatto sia possibile per tutti; questo film è dedicato ai giovani, a cui cerca di dire che ‘tutto è possibile’, anche per una piccola donna come lei, grazie alla spinta della passione, e all’amore per il prossimo; lei diceva che la vita non ha senso se non la dedichiamo agli altri, cosa molto importante in questa nostra epoca, in cui l’ego è il grande protagonista: vediamo un individualismo edonistico sfrenato. Mi auguro il film possa svegliare la coscienza, non solo di chi volesse diventare scienziato, ma dei giovani che possiedono una passione per la quale valga la pena vivere, lavorare, lottare, che faccia bene anche a chi è vicino, anche senza vincere un Nobel. Il ‘900 e primi Anni 2000 sono stati quelli delle grandi evoluzioni tecnologiche, molto meno di quelle emotive: dobbiamo lavorare affinché i due si avvicinino un po’ di più. Il contatto che sento di avere con lei è il senso dell’etica e della morale: ho avuto una mamma piuttosto rigida, con un senso del dovere molto forte, per cui sono grata, perché il far bene, con onestà, impegno, lo sento vicino; e l’altra cosa che sento molto vicina è l’amore per i giovani: io personalmente dedico a loro il film, hanno davanti un duro lavoro da fare per cambiare questo mondo, da quelle parti emotive che abbiamo tralasciato, con l’ipertrofia dell’ego. Penso sia l’ora di una rivoluzione vera, quella culturale, e le armi dei giovani devono essere libri, cultura, penna”, continua Elena Sofia Ricci, che riflette poi sul tema del tempo, caro alla Professoressa. 

“Il tempo è poco e va vissuto intensamente, con responsabilità e quella consapevolezza che fa sì che sia utile: è qualcosa di estremamente prezioso, il presente non esiste perché è già passato, è un attimo, quindi quel futuro che ci resta va pensato, organizzato, vissuto con il massimo dell’energia positiva, creativa, quando possibile illuminata. Senza farsi mai scoraggiare: lei è morta a 103 anni senza aver scoperto la cura per il Parkinson e per l’Alzheimer; il Nobel l’ha vinto nell’86 e quella sua scoperta serviva, anche se ancora non ha portato ad una soluzione, perché grazie a quella sono stati sintetizzati altri farmaci per altre patologie, e i suoi allievi e assistenti ancora continuano a studiare quello che lei perseguiva, e comunque la sua scoperta ha portato a scoprire molto meglio il cervello”. 

Il film è stato girato in quattro settimane e mezzo, “un piccolo miracolo. Una scena in particolare mi ha molto molto toccata: l’ultima inquadratura, il primo piano di lei che guarda la bambina che suona, alla fine. È stata l’ultima scena effettivamente girata e io non volevo separarmi da lei: mi commuovo a ripensarci, quel momento era il mio lasciar andare la Professoressa, è stato come quando ti muore qualcuno di caro, che sai che devi lasciar andare, ed è qualcosa di non facile, ma va consegnato agli altri”, riflette l’attrice. 

20 Novembre 2020

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