Orso alla carriera per Ken Loach: “La crisi? Oggi è peggio di 20 anni fa”

Attualmente impegnato nella post-produzione del suo nuovo film Jimmy's Hall, ammette che potrebbe essere la sua ultima opera narrativa: "È bello fare film, ma è un lavoro duro"


BERLINO – “È bello fare film, ma è un lavoro duro. Lo spirito vorrebbe continuare, ma il corpo pian piano cede. Vedremo, serve energia per fare cinema e superati i 70 anni ce n’è meno. Se smetto troverò comunque qualcosa che mi tenga occupato e mi eviti di fare scemenze”. Si avvicina al traguardo degli 80 anni, Ken Loach (è nato a giugno del 1936), e se il corpo cede, il suo spirito resta quello, combattivo, di un ragazzino, che non rinuncia a fare politica, con le immagini e con le parole. Arrivato a Berlino per ritirare l’Orso d’Oro alla Carriera, ammette che Jimmy’s Hall – il film che ha scritto con il suo sodale di sempre Paul Laverty, attualmente in post-produzione – potrebbe essere la sua ultima opera narrativa, anche se non è detta l’ultima parola.
E risponde volentieri a ogni domanda di tenore politico; ad esempio crede che, rispetto a 20 o 30 anni fa “Il tasso di sfruttamento del lavoro sia cresciuto ma venga accettato con maggior rassegnazione. La situazione – dice – è peggiorata, 20 anni fa era dura, oggi di più”.

La cerimonia di premiazione al Berlinale Palast sarà accompagnata dalla proiezione di Piovono pietre, un film che risale al 1993: “Era finito il governo Thatcher, assistevamo alla chiusura delle industrie tradizionali, c’erano molti disoccupati e famiglie distrutte, con uomini ormai di una certa età messi alla porta della filiera siderurgica… Le donne hanno ovviamente sentito l’impatto della disoccupazione, ma questa ha colpito soprattutto gli uomini, provocando perdita di dignità e identità. Oggi, rispetto ad allora, c’è una disaffezione terribile: prima si lottava di più, ora i tempi sono cambiati e c’è la sensazione che la gente accetti tutto, che ci sia collera, ma non ci si organizzi per cambiare le cose”. Lui a cambiare le cose ci ha certamente provato, con il suo cinema, ma crede che “minore è l’ambizione, maggiore è possibilità di cambiare qualcosa. Magari con un piccolo progetto per la tv ho contribuito a cambiare una legge, invece con film più ambiziosi che parlano di potere, conflitti di classe, imperialismo e guerra ho aggiunto solo una voce al rumore di fondo”.

Per l’Europa unita, crede che ci sia una futuro, “ma a patto che si basi sulla cooperazione e non su competizione e concorrenza. Non bisogna forzare la gente a migrare per lavoro, così si crea il terreno per l’estrema destra…”, e della Gran Bretagna dice senza esitazioni, “se fossi scozzese voterei per l’indipendenza”. Nella capitale tedesca, però, è venuto per la celebrazione del suo cinema: 24 film in quasi 50 anni realizzati secondo il principio del “lavoro collettivo, a partire dalla sceneggiatura”, che condivide da anni con Laverty. “Ci scriviamo, discutiamo, ci mandiamo messaggi continuamente, finché non troviamo una storia che ci permetta di descrivere una situazione e portare sullo schermo dei personaggi che il pubblico vorrebbe conoscere, raccontando conflitti e cercando di illuminare un pezzo di società. Cominciamo da un campo di possibilità molto largo – spiega – poi man mano restringiamo, e lo allarghiamo di nuovo all’inizio del casting. Le riprese, poi, dipendono da tantissimi fattori esterni, e poi ancora c’è il montaggio: nel processo è molto facile perdere di vista l’idea centrale”. Ora, dopo gli applausi della Berlinale – che accanto all’Orso alla carriera ha organizzato una retrospettiva in 10 film – non resta che aspettare il prossimo, sulla storia di Jimmy Gralton, che nel 1921 costruì una sala da ballo a un incrocio della campagna irlandese per offrire ai giovani un punto di incontro in cui divertirsi e discutere.

13 Febbraio 2014

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L'Orso d'oro e l’Orso d’argento per l’interpretazione maschile vanno al fosco noir Black coal, thin ice di Diao Yinan insieme al premio per il miglior contributo tecnico alla fotografia di Tui na di Lou Ye. Un trionfo cinese a conferma della forte presenza al mercato di questa cinematografia. Importante anche l’affermazione del cinema indipendente Usa che ha visto andare il Grand Jury Prize a Wes Anderson per il godibilissimo The Grand Budapest Hotel. Il talentuoso regista ha inviato un messaggio nel suo stile: “Qualche anno fa a Venezia ho ricevuto il leoncino, a Cannes mi hanno dato la Palme de chocolat, che tengo ancora incartata nel cellophane, finalmente un premio a grandezza naturale, sono veramente contento”. Delude il premio per la regia a Richard Linklater che avrebbe meritato di più


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