Massimo D’Anolfi e Martina Parenti: Kafka in aeroporto


TORINO. “Il nostro è un film documentario sulle procedure e sulle pratiche del controllo nel male e nel bene all’aeroporto intercontinentale di Malpensa. Il controllo e la sicurezza come ossessione a volte giusta, a volte sbagliata. E in questo contesto, dove le procedure prevalgono sull’individuo, facciamo emergere altro: le vite umane nell’arco delle quattro stagioni, con una conclusione malinconica centrata sulla fine dell’accoglienza”. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, coppia nella vita e nel cinema, sono gli autori de Il castello che in concorso a Italiana.Doc ha vinto il Premio speciale della giuria (€ 3mila) e il Premio Avanti!, cioé la distribuzione nel circuito Lab 80 Film. 

Nel film documentario, il cui titolo rinvia alll’omonimo famoso romanzo di Kafka e che è prodotto da Montmorency Film in collaborazione con Rai Cinema, emergono le vicende del ragazzo latinoamericano che viene arrestato, della donna che da sei anni vive in aeroporto, del ragazzo nigeriano che chiede asilo politico in Italia ma viene respinto nel suo Paese. E poi in scena ci sono i tanti altri abitanti di Malpensa: gli uomini impegnati nel giropista, i sorveglianti con il loro corso di preparazione, i controllori di volo, i poliziotti, gli addetti al controllo degli animali.

Il castello, già premiato a Toronto al Festival internazionale del documentario Hot Docs, è un film d’osservazione ed è il ritratto di una frontiera a volte drammatico, a volte ironico, a volte contemplativo.

Tra i lavori realizzati dalla coppia D’Anolfi&Parenti ci sono due film presentati al Festival di Locarno: Grandi speranze sui giovani imprenditori italiani e I promessi sposi sulle nuove coppie, girato in alcuni comuni seguendo il corso prematrimoniale del prete. Risata amara lnel primo, pura comicità nel secondo, mentre ne Il castello si sorride poco predomina la vena malinconica.

Come è nata l’idea di questo vostro film documentario?
Un giorno che eravamo in viaggio, ci siamo accorti che raramente un aeroporto è stato il soggetto principale di un film. Ci siamo detti proviamo a raccontarlo, anche se i permessi non ce li daranno mai. Invece la SEA, la società che gestisce Malpensa, ci ha detto subito sì dopo pochi giorni.

Come vi siete rapportati con il contesto da voi scelto?
Innanzitutto abbiamo seguito un corso sulla sicurezza prima delle riprese, così siamo stati abilitati per un anno, dicembre 2009/2010 a girare nelle quattro aree dell’aeroporto, compresa la torre per la quale abbiamo dovuto richiedere altri permessi.

Una condizione anche questa un po’ kafkiana?
Sì, dal primo all’ultimo giorno abbiamo continuato a chiedere permessi. E siamo rimasti anche noi intrappolati nel luogo. Per un anno, non siamo mai usciti da quello spazio e abbiamo costruito il disegno del nostro castello attraverso le geometrie che si creavano.

L’aeroporto che mostrate è il laboratorio delle nuove forme del controllo?
Il castello è un film documentario sulle pratiche del controllo nel male e nel bene. Il controllo come ossessione a volte giusta, a volte sbagliata. E in questo contesto dove le procedure prevalgono sull’individuo facciamo emergere altro: le vite umane e anche le quattro stagioni della vita, con una conclusione malinconica centrata sulla fine dell’accoglienza.

 

Le immagini degli interrogatori e delle perquisizioni, spesso duri e oltre il limite, di alcuni stranieri fermati dalla polizia sono un documento inedito e unico.
Abbiamo collocato la telecamera con cavalletto sulla soglia della porta e chiesto dapprima l’autorizzazione alle persone interrogate, ovviamente ottenendo dei sì e dei no. La nostra posizione è in bilico, nel senso che filmiamo quel filo sottilissimo tra chi esercita il potere e chi lo subisce, non sta a noi dare giudizi anche se le immagini parlano di per sé.

Il vostro metodo di lavoro è dunque basato sulla telecamera fissa e pochi movimenti?
Sì e quello di sparire il più possibile, ma in modo corretto tant’è che tu non vedi mai qualcuno che guarda la telecamera. Dunque non corriamo dietro l’azione o qualcuno perché irripetibile. Siamo convinti che se tu stai nel modo corretto e delicato, le cose prima o poi accadono. Insomma l’importante è trovare la giusta distanza e diamo così al film una struttura, combinando pensiero razionale ed emotivo
.
La vostra tabella di lavoro prevedeva ogni mese 15 giorni di riprese e altrettanti di montaggio.
Noi procediamo per accumulo, giriamo, vediamo e poi montiamo. Noi stessi scopriamo il film facendolo. Ci immergiamo in un luogo e una volta che ci siamo riempiti delle sensazioni e delle atmosfere proviamo a restituirne l’anima.

Avete rinunciato a qualcosa del girato?
Su 80 ore, l’unica parte sacrificata perché ripetitiva è stata il controllo della valuta che era esilarante. Non si può portare fuori dall’Italia più di 10mila euro senza dichiararli, altrimenti incappi nella sanzione. Ebbene abbiamo visto cinesi che si portavano fuori 70mila euro nascosti nei posti più imprevedibili.

Un riferimento per il vostro lavoro?
Apprezziamo molto il documentarista americano Frederick Wiseman, regista classico del film d’osservazione che ha raccontato le caserme, gli ospedali per svelarne i meccanismi.

 

03 Dicembre 2011

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