La Cina è lontana… Anzi, è vicina

Il regista Maurizio Sciarra, che sta lavorando a una coproduzione Italia-Cina, racconta a Cinecittà News l'emergenza coronavirus da un doppio punto di vista


Sono i primi giorni di dicembre quando parto per il nuovo viaggio in Cina. C’è l’annuale appuntamento con GZDOC, il più importante Festival del documentario di Guangzhou, ed è l’occasione per incontrare a Pechino finanziatori e coproduttori del film e di due serie di documentari da coprodurre. Il volo più utile e conveniente fa scalo per tre ore in una città a noi tutti sconosciuta: Wuhan. Guardo Google Map per capire dov’è, scopro che è un grande hub per congiungere la Cina col resto del mondo.

Tranquilli, tutto doveva ancora succedere, o forse il virus faceva le sue “prove tecniche” senza che nessuno potesse saperlo. Gli incontri vanno bene, i finanziatori vecchi e nuovi sono d’accordo a passare alla realizzazione di Everlasting Moments, coproduzione difficile e lunga, Anche GZDOC dà i suoi frutti. Tutti, felici, ci diamo appuntamento a “dopo il nostro e il vostro capodanno”.

Poi, tutto cambia. Le prime notizie fanno balzare al centro della nostra vita proprio Wuhan. Le immagini e le storie sono sconvolgenti, ma lontane. C’è chi in patria, quella patria che alcuni vorrebbero chiusa al mondo, alle diverse culture, alle diverse abitudini, comincia a trovare il nemico: “I cinesi mangiano bestiacce crude”. Riparte il racconto della contaminazione, quella cattiva e mortale, che però sempre quei qualcuno assimila a qualsiasi altra contaminazione, la storia degli untori, degli “appestati”. Perché per noi “i cinesi sono tutti uguali, come fai a distinguerli”, sono tanti e sono lontani.

Ma scopro che per me è diverso. Ci sono storie concrete e facce reali. Su tutte però campeggia una sola parola: ISOLAMENTO. Il mio coproduttore Stephen abita ad Hong Kong, ma lavora nella Cina continentale. Deve fermarsi a Hong Kong e sospendere ogni altra attività. E’ il primo che mi dice: “Usciamo uno per famiglia ogni tre giorni per fare la spesa. Abbiamo una tessera”.

La top manager della grande società che si occupa dei finanziamenti internazionali mi risponde da casa, a sera tardi per lei, si sentono le voci dei bambini in sottofondo. “Sì, avremmo un progetto nuovo da proporti. Pensiamo che si potrà girare non prima della fine dell’estate”… E’ la prima a darmi la sensazione del tempo che ci vorrà. Ma, ancora, succede “lì da loro”.

Jen Lin Liu, che scrive di cibo (On the Noodle Road, per esempio) e ha un fantastico ristorante/scuola in un hudong vicino alla Città Proibita, deve chiudere, va a stare a Washington dove lei e suo marito hanno la residenza, e non sa che cosa farà il suo cuoco che l’ha seguita a Pechino dalla remota regione in cui è nato. La mia amica attrice, fidanzata con un ungherese, è per fortuna in Ungheria dalle vacanze del “Nostro Capodanno”. Non può e non vuole rientrare. 

Tutti, come se ce ne fosse bisogno, mi dicono di non pensare neanche lontanamente ad un prossimo viaggio in Cina. Scopro quanto sia importante, per loro, sentire che ci si interessi alla loro condizione. Che gli si chieda come stanno e come reagiscono. La forte, granitica, unitaria identità nazionale si mostra fragile e spaventata. I messaggi si fanno regolari. Le notizie, sempre più angoscianti. I messaggi “wechat”, la loro mega App di chat e non solo, si chiudono con immagini di braccia muscolose, dita incrociate, cuori pieni di affetto. Poi, d’un tratto, la storia cambia.

“Come stai? Come va lì da voi?” “Sentiamo ogni giorno nei nostri notiziari quello che accade in Italia”. “Non uscite di casa e mettete le mascherine”. Fino all’amica manager che mi dice: “Mi sono avanzate delle mascherine, te le mando?”. Ecco, questo è il messaggio che mi tocca di più. Ci conosciamo da ottobre, non da una vita. Eppure c’è qualcosa che è scattato. Da parte mia, dapprima, da parte di tutti “loro” subito dopo. E quello che mi commuove è che per tutti noi il coronavirus non è fatto di immagini e numeri anonimi. E’ fatto di storie, sentimenti reali, di nomi, cognomi, indirizzi, abitudini differenti ma coincidenti. Certo, è tutto terribile. Ma se ne usciamo con l’idea che questa è la globalizzazione che ci piace, che ci apre cervelli e cuori, che ci fa ripensare i nostri modi di vita, ci fa trovare strade nuove alla solidarietà e al progresso compatibile, questo tempo non sarà sprecato.

07 Aprile 2020

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