‘Kalavrìa’, Ivan Franěk e la libertà di Ulisse

Parola al protagonista del film documentario scritto e diretto da Cristina Mantis, nella sezione Italiafilmfest/Doc del Bif&st, con Agnese Ricchi nel ruolo di Circe


BARI – Ulisse, prima di tornare a Itaca, fece la sua ultima tappa in Calabria (secondo lo storico tedesco Armin Wolf).

Ulisse è Storia, storia della Letteratura, parte del Mito, sostanze sociali e dell’arte proprie di un tempo arcaico specifico ma la cui universalità, trasmissione, capacità di mimes con l’evolvere delle epoche non lo hanno cristallizzato nell’eroismo di Omero ma hanno permesso mutasse e si evolvesse, divenendo un contemporaneo perenne.

Non stupisce l’acronicità propria del Mito e proprio su questa ha lavorato Cristina Mantis per Kalavrìa, film documentario al Bif&st nella sezione Italiafilmfest/Doc: affascinata dall’Odisseo omerico, chiama Ulisse (Ivan Franěk) il suo misterioso migrante sospeso nel tempo, nell’aspetto e nel verbo, sintesi di una più complessa umanità di genti e naufraghi, che le circostanze hanno mosso per disperazione e per coraggio, indirizzandosi per forza di cose nella galleria della confusione dell’identità, poi però capaci di ritrovare il proprio sé.

È un Ulisse errante quello di Franěk, che incontra persone/personaggi, la cui personalità spesso fuori dal comune crea un’atmosfera di confine tra la più terrena umanità e la fiabesca sospensione, là dove forse si può rintracciare uno spiraglio di ossigeno dalle fatiche dell’esistenza.

La Kalavrìa del titolo è quel lembo di terra meridionale, quel vessillo di “Sud del mondo”, che rispecchia in sé i tanti Sud martoriati, arrancanti, potentemente materni nell’abbraccio curante, in cui nella purezza di paesaggio, nell’istintività dello stesso, come accolse l’Ulisse di Omero così accoglie quello di Mantis, e gli permette di riveder la luce.

Ivan, il film, e il suo personaggio, si fondano sulla memoria, necessità di non dimenticare un passato assoluto per l’umanità, ma anche memoria personale. Per dare anima al ruolo, qual è stato il suo lavoro sulla memoria dell’uomo che mette in scena?

Metafisicamente mi sono spogliato. L’arrivo nudo sulla spiaggia richiede uno svuotarsi, un aprire gli occhi per la prima volta: ho provato questo sentimento, nel partire, nell’andare là, continuato poi con il camminare. Ho pensato un po’ al camminare sulla ferrovia che si vede in Paris, Texas: ho cercato dapprima questo sguardo, poi è come se le cose incontrate e ricordate mi fossero arrivate addosso e fossero entrate nei buchi neri degli occhi, rivivendo, riaggrappandosi a quello che c’è già dentro.

Il tempo strettamente presente, quello delle migliaia di esperienze umane di migrazione e naufragio che quotidianamente succedono, l’ha suggestionata?

Sì e no. E’ certamente qualcosa che appartiene al presente, ma non è stata la cosa in assoluto di riferimento, anche se effettivamente, mentre giravamo, c’è stato un enorme naufragio, con il ritrovamento continuo di corpi: questo è un evento ormai presente da molti anni, e non voglio dire che la gente si sia abituata, perché è sempre una tragedia, ma io penso che per noi, che non l’abbiamo vissuta davvero un’esperienza così, non sia cosa facile da immaginare, perché viviamo in un confort che rende difficile capire davvero la fuga, l’imbarcarsi e tutto quello che comporta; è difficile immaginarsi una cosa che non conosci in prima persona, la nostra immaginazione non va abbastanza lontana. La migrazione fa parte dell’umanità da sempre, come le guerre purtroppo: l’umanità ha sempre esercitato prese di potere, prese di territori; io mi domando perché l’umano sia così: il paradiso non esiste sulla terra, forse dopo, chissà.

Ulisse appartiene al Mito, appartiene a qualcosa di antico che però non è mai stato superato dal tempo: s’è misurato con la letteratura omerica e con le narrazioni classiche del personaggio, c’è qualcosa che ha voluto conservare e/o cosa abbandonare?

Penso che Ulisse sia un uomo con esperienze di battaglie e di amori, ha vissuto una vita completa: per quello che ha vissuto lui non basterebbero dieci nostre vite. Cristina non s’è addentrata più di tanto nel Mito, c’erano dei momenti di ingresso nel Mito ma senza forzare questo aspetto: piuttosto, io mi sono ispirato alla libertà di Ulisse di scoprire, di cercare, di conoscere, armonizzando con le persone nella conoscenza, per capire se stesso.

L’uomo contemporaneo, nella sua percezione d’artista, di cosa è alla ricerca nel sé e nella società? L’arte può essere di supporto, può contribuire a questa ricerca?

L’essere umano contemporaneo deve farsi molte domande su come educare i propri figli, questa può essere la salvezza. Penso che attraverso la possibilità di un’educazione che gli offra tutti i colori della vita, permettendogli di mischiarli come più sentono, mostrando le diverse strade che esistono, si possa cercare così la salvezza dell’umanità. Viviamo con il cellulare in mano, sempre, non ci guardiamo, non abbiamo un senso di condivisione vero, dunque l’arte, che rappresenta il sogno, stimola la curiosità, che manca tanto: senza arte siamo niente. Io osservo tutto questo anche attraverso mia figlia, che frequenta la prima liceo artistico: troppo spesso manca la curiosità, e si cede alla facilità del prendere in mano il cellulare dove si vedono cose che forse fanno ridere ma poi sono un intrattenimento vuoto, è pazzesco il punto a cui siamo arrivati, tutto fondato sul mostrarsi, guardarsi negli specchi: dovremmo evitare di essere così noi stessi e puntare sull’educazione dei nostri figli.

Nel film c’è un personaggio, non umano, che concorre alla definizione di Ulisse: è la Natura vergine, integra, in cui lui progredisce. Lei ha stabilito un rapporto con questa ‘collega’?

Sì, assolutamente. Per me era la terza volta che lavoravo in Calabria, e quando Cristina mi ha detto che si sarebbe girato lì, cambiando luogo ogni giorno, sono stato felice di tornare, per viverla in una maniera differente: dalla Sila al mare, i luoghi corrispondevano ai personaggi che incontravamo, perché queste persone sono le radici di questi posti, sono elementi autentici, come la signora dei gabbiani o l’ultimo brigante; questo ha permesso la forza della relazione con la storia e la semplicità delle persone nate in questi luoghi, in cui la Natura è davvero pazzesca. Io con loro dovevo ‘spogliarmi’ e essere pronto a ricevere il loro racconto, loro che si aprivano piano piano, senza che ci fosse naturalmente un copione, nemmeno per me.

Questo progetto sembra essere andato ben oltre il mestiere dell’attore in senso stretto, toccando la psicologia umana, la sociologia. Da attore, per lei che esperienza è stata?

Pazzesca, pazzesca. Potevo aver l’indicazione di una battuta, ma si procedeva senza copione. Mi è piaciuto tanto, anche se così resti sempre un po’ sotto stress perché non sai cosa ti aspetti: ho capito che dovevo ‘spogliarmi’ con sincerità, onestà e rispetto, perché stavo davanti a personaggi unici, intensi.

Cristina Mantis che indicazioni le aveva dato rispetto alla gestione del suo ruolo, senza una sceneggiatura?

Cristina mi ha dato una linea, l’idea della sua ricerca, che era abbastanza precisa, ma che poi si confrontava con un materiale umano molto ricco: semplicemente è toccato aprirsi, aspettare, per poi comunicare senza paura con le persone; con gli zingari, per esempio, mi sono connesso cominciando a cantare, un canto a cui si sono uniti a me, così l’attore quasi sparisce e lo lasci catturare da chi inquadra; per una volta vesti più i panni di te stesso ed è interessante, comporta un’improvvisazione pazzesca: seppur fosse proprio un progetto differente, avevo vissuto qualcosa di simile durante un lavoro insieme a persone con malattie mentali.

Questo tipo di esperienza attoriale così poco canonica le ha lasciato qualcosa che porterà con sé anche nella più tradizionale recitazione di finzione, oppure è stata un’eccezione?

No no, anzi. Mi ha permesso di trovare una sincerità che sto cercando anche in personaggi che vestono panni di finzione. Mi diverto perché sono approcci diversi, mi stimola affrontare cose non necessariamente in maniera classica: ho sempre paura a improvvisare ma poi quando si comincia mi piace e l’importanza e la bellezza sta nello scambio, nell’interazione, cosa che succede anche quando giro dei film con personaggi di finzione, per cui lascio sempre un 30% di margine di apertura, da adattare alla comunicazione non prevedibile che si stabilisce con le persone con cui mi metto in relazione per un’azione o una battuta.

La fotografia del film, sofisticata, materica, palpabile, è curata da Fabio Olmi. Kalavrìa è un produzione Ganesh Produzioni, Ctm Centro Teatrale Meridionale, Movimento Film.

Nicole Bianchi
16 Marzo 2024

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