Incontri è l’annuale Film Conference di IDM Film Fund & Commission dell’Alto Adige che riunisce ogni anno rappresentanti dell’industria dell’audiovisiva, italiani e internazionali. Anche se questa decima edizione è in digitale, il 26 e 27 maggio, l’obiettivo di queste giornate di panel rimane lo stesso: riflettere sulle opportunità e le sfide che attendono tutti i professionisti del settore e tentare insieme di gettare le linee guida per una produzione di contenuti più adeguata alle esigenze di un panorama digitale multischermo.
Insieme a produttori, distributori, broadcaster, direttori di festival e di premi cinematografici, registi, sceneggiatori, addetti ai lavori, che intervengono come ospiti di questa think-tank conference, IDM cerca di rispondere ai quesiti che coinvolgono tutta l’industria.
Insieme a Carlo Chatrian (Co-Direttore Berlinale), Alberto Barbera (Direttore Mostra di Venezia), Piera Detassis (Presidente David di Donatello), Matthijs Wouter Knol (Direttore EFA-European Film Awards), Andrea Occhipinti (CEO, Lucky Red), Nicola Maccanico (AD Cinecittà Luce), il regista Marco Manetti dei Manetti Bros., Philipp Hoffmann (Fondatore Rushlake Mediae, digital distribution e sales company) e molti altri, si parla di come cambierà la narrazione audiovisiva con la crescente frammentazione delle piattaforme; quali sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere sia con la sala che con lo streaming; come possono i festival e i premi cinematografici guidare il mercato per produttori e registi e si cerca, infine, di raccontare come hanno fatto i produttori a realizzare progetti ambiziosi nonostante la pandemia.
L’ospite che apre la prima giornata è Marco Manetti, del duo Manetti Bros., in procinto di rilasciare a dicembre il cinecomic Diabolik, con prospettive già per due sequel, come viene detto proprio in conferenza, ricordando anche il David per Ammore e Malavita.
“Siamo registi, soprattutto – dice Manetti – e tutto il resto della nostra attività viene dalla passione. Non vogliamo fare altro lavoro che questo, abbiamo recitato in un episodio di De Generazione di Alessandro Valori ma non per questo siamo attori. Scriviamo sceneggiature perché abbiamo voglia di fare i film che ci piacciono. Questo spesso ci porta anche a scoprire nuovi talenti, e se capita li produciamo. E poi c’è la possibilità come registi di sapere di cosa i registi hanno bisogno anche nel processo produttivo. L’Italia è piena di coppie di fratelli che fanno film, ma penso che dirigere sia un lavoro solista. L’unico modo in cui si può lavorare in team è dove c’è grande familiarità e poca competizione, quindi spesso questo avviene tra fratelli, sorelle o coppie. Alla fine della giornata la divisione è difficile. Proviamo a dividerci i compiti, Antonio è un cameraman, ed è quello che spesso tiene la telecamera in mano. E se la cava con le finanze, però non abbiamo una divisione specifica dei compiti, è molto relativo. Io sono stato assistente alla regia, anche di grandi come Marco Bellocchio, o per le serie di Vittorio Sindoni, mio fratello no. Sindoni mi disse ‘la verità è quello che racconti’. Se le persone ci credono, funziona. E devi fare quello che ti piace. I film non sono generi, sono storie. In Italia per molti anni hanno appartenuto a due o tre generi: commedia, dramma, politica. Forse noi siamo tra i pochi registi che non seguono i generi, non ci importa. Vogliamo fare film liberi dal genere. Possiamo parlare di un poliziotto e metterci elementi di fantascienza, non ci interessa. Il paradosso è che siamo considerati i registi di genere italiani per eccellenza. Non ci ragioniamo troppo sopra. Non so se siamo fortunati, ma siamo arrivati a una buona posizione dopo una lunga e lenta carriera. Ci siamo arrivati lentamente, perché abbiamo tenuto alla nostra libertà, con un po’ di pazzia, e abbiamo continuato a fare i film che ci piacevano, ed eravamo convinti che eravamo capaci di farlo. Abbiamo ricevuto molti no, e molti ne abbiamo detti. E’ stata una carriera lenta, ma molto soddisfacente. Siamo stati determinati e testardi”.
E poi specificamente sull’argomento principe degli Incontri: “A noi piace fare film, che vadano in piattaforma o in sala. Ma il problema è il rapporto con il publisher, perché in televisione tendono a controllarti di più. Parlavo ieri di questo con una collega, e io le dicevo che non ho mai lasciato che mi controllassero. Lei diceva che dipende dal fatto che siamo famosi, ma noi lo abbiamo sempre fatto. Abbiamo accettato la realtà. Se facciamo un film per un’emittente tv, ne accettiamo lo stile, il mercato, e non abbiamo paura di seguirle. Cerchiamo di stare nel marchio, se ci sentiamo a nostro agio. Se invece non ci convince, diciamo no all’inizio. Se invece decidiamo di seguirlo, lo seguiamo. E’ una questione di serenità. Siamo tranquilli nel seguire un percorso se lo imbocchiamo. Se invece siamo convinti che ci sia qualcosa da discutere, combattiamo. Pensiamo che una buona sceneggiatura e un buon attore siano più importanti di un grande budget, anche se adesso possiamo avere molte più risorse di quando abbiamo iniziato, quella resta la nostra mentalità. Con Piano 17 abbiamo dimostrato che in una famiglia che vuol fare film, niente è impossibile”.
Sulla pandemia: “Un tassista che non sapevo chi era, mi diceva ‘siamo l’unico settore veramente danneggiato’ e io gli dissi ‘c’è anche la produzione cinematografica’. Penso che tutti siano rimasti danneggiati, ma comunque abbiamo passato la pandemia lavorando a Coliandro e abbiamo finito un film con Daniele Misischia, ora stiamo scrivendo per Diabolik 2 e 3, non ci siamo molto fermati dopotutto. Non so cosa accadrà nel futuro, ma penso che ci sarà un primo periodo strano, in cui ci dovremo abituare. Ci sarò un cinema senza blockbuster, ma potrebbe anche essere l’occasione per far uscire film diversi. Questa cosa sta già un po’ succedendo. Ci sono film d’autore in testa ai box office. Ma quello che temo è che quando le porte saranno veramente aperte, ci saranno fin troppi film già pronti a uscire, come James Bond e altri di quel calibro, ci saranno due anni di continue uscite, ci saranno alcuni mesi caotici. Ma spero anche che questo porti a un punto di vista più artistico, e dovremo fare i conti con il come raccontare la pandemia. Diabolik si ambienta negli anni ’60, e come posso sapere come erano gli anni ’60? Guardando film. Ma se qualcuno prende un film di questi anni, avranno un’immagine falsa perché stiamo nascondendo la pandemia al cinema, non mostriamo la gente con le mascherine. Mi chiedo perché. Certo è un periodo doloroso ma è la verità. Ho paura che diventi un tabù”.
“Certamente non è facile immaginare cosa sarà il futuro – dice Alberto Barbera – ma siamo passati attraverso un periodo veramente difficile. Festival posposti, annullamenti, eccetera. Anche se con Venezia è andata bene, essendoci collocati in un momento in cui la pandemia era sotto controllo. Penso che ora iniziamo a vedere la fine del tunnel, con le vaccinazioni che stanno andando forte in tutta Europa, ma non sappiamo bene cosa vedremo nei prossimi mesi. Ci stiamo comunque avvicinando a una sorta di normalità. Sappiamo che dobbiamo andare incontro a varie limitazioni, ma quest’anno potrebbe essere migliore di quello passato. Se dovessi giudicare dal numero di film che ci hanno mandato a Venezia, direi che è molto positivo. Siamo veramente ricoperti di film da vedere e considerare per il festival. Alcuni sono film che non sono potuti uscire lo scorso anno, altri sono del tutto nuovi. E parlare con i nostri partner, con i produttori. Questo ammontare di film mi fa pensare che nessuno voglia perdere l’appuntamento con il festival. La voglia di festival aumenterà durante il periodo post-pendemico. Certamente può funzionare una versione online ma non puoi avere la stessa promozione per un film che avresti con un festival organizzato in presenza, con il raduno di media, professionali, audience, con i red carpet, le conferenze, i photo call”.
“Sono d’accordo con Barbera – fa eco Detassis – non si può fare a meno delle edizioni fisiche. La promozione, i talenti, c’è bisogno di un incontro fisico. Della presenza. Abbiamo avuto l’ultimo anno un’edizione dei David completamente digitale, non volevamo saltarla e dovevamo farlo. E’ stato comunque divertente, c’è stato molto rumore, abbiamo parlato con Bellocchio e visto la moglie di Favino baciare il marito in diretta per la premiazione, è stata una comunicazione un po’ diversa. Ma comunque c’erano due location, gli Studios e il Teatro dell’Opera. Senza le sedute, ma con i nominati presenti, e uno scambio continuo. E’ stato tutto molto empatico. E volevamo assolutamente presentare anche le categorie ‘tecniche’, cioè i meno famosi. Ne abbiamo discusso molto. Ho imparato che a causa del distanziamento e delle questioni pratiche, dobbiamo semplificare le cerimonie, concentrarci. Niente comici, meno show per la televisione, meglio mantenersi sul semplice. Lasciare un po’ da parte il barocco delle cerimonie ci può permettere di essere più vicini ai nominati e ai vincitori. Non è stata una scelta, inizialmente, ma ci ha portato qualcosa di buono, e credo che anche dopo la pandemia non dovremo tornare allo stile di prima. Qualcosa è cambiato per sempre. Il David non è solo la ‘grande notte’, la cosa più importante per me è l’accademia, è la referenza per l’industria, gli artisti e le associazioni. Il vero lavoro dietro l’evento è questo, al di là dello show”.
“Sono stato fortunato, il lockdown è iniziato dopo la fine della Berlinale, mentre io stavo lavorando alla mia prima edizione, e siamo stati sempre sicuri che una edizione totalmente online non era un’opzione – dice Chatrian – noi rispetto ad altri festival abbiamo una grande città attorno, che è molto vicina alla manifestazione. Sapevamo che non era possibile un evento in città e quindi stavamo preparando un’edizione ibrida, con molti spazi aperti, d’altro canto io vengo da Locarno dove l’esperienza è abituale. E lavoriamo con proiezioni simultanee in diversi posti della città. Non so se ci sarà possibilità di tornare indietro, spero di sì, credo che abbiamo bisogno di un po’ di tempo per elaborare. Ho imparato che da un lato il cinema è molto flessibile, più dei festival. Produttori e registi riescono comunque a fare film sotto pandemia, magari ci sono meno soldi e bisogna essere più veloci e tirare fuori idee. Sappiamo che per la prossima edizioni non possiamo dare per scontato che la pandemia sia finita. E’ difficile ridurre la selezione di film, ma è una buona soluzione. Ma se dobbiamo lavorare per una città così popolosa abbiamo bisogno di molti film. I festival hanno molti ruoli, ma uno in particolare è mettere un marchio di qualità, e selezionare i film. Gli aspetti più glamour sono importanti, ma anche io sono nell’ottica di una semplificazione”.
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