30 anni fa, parallelamente al cinema e a teatro, è iniziata la carriera di Fabrizio Gifuni. E così è continuata, alternando il palcoscenico e i set, sempre senza mai lasciare indifferente il pubblico. Oggi, di passaggio per vedere la sua Juventus impegnata nel derby d’Italia con l’Inter (come fa ironicamente notare Steve Della Casa), l’attore ha tenuto una masterclass davanti al pubblico del Torino Film Festival in cui ha ripercorso tutti gli incontri di una carriera che negli ultimi anni ha ottenuto vette altissime, soprattutto in ambito cinematografico.
Pronto a debuttare con due spettacoli dedicati rispettivamente a Pasolini e Moro, non poteva che iniziare confrontando questi due personaggi così diversi eppure così inesorabilmente vicini: “Quando ho iniziato a pensare al mio primo spettacolo, ‘Na specie di cadavere lunghissimo, ero attento a quello che Pasolini aveva significato da un punto di vista civile, quanto fosse indistricabile quel groviglio di vita, opera e morte, come se inseguissero continuamente. Pasolini era un abile depistatore, tutto quello che ruota attorno alla sua morte è terribile e affascinante, perché sembra una costruzione poetica. L’affair Moro e quello Pasolini rappresentano due ferite che segnano un passaggio tra due diverse Italie. Le loro morti inaugurano un nuovo Paese. Il teatro e il cinema alle volte riescono ad aprire delle porte che sono come dei cortocircuiti. È una grande responsabilità perché puoi falsificare la realtà storica, ma se riesci ad accendere qualcosa, allora diventa una memoria viva, perché si trasmette alle generazioni successive”.
Oggi si celebrano i 5 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci. Gifuni ha avuto un rapporto artistico e personale con suo fratello Giuseppe. Regista certamente meno popolare del celebrato fratello premio Oscar, ma che Bernardo in realtà “bonariamente” invidiava. “Bernardo ci diceva che volevamo più bene a Giuseppe. Aveva colto una qualità pazzesca in lui, che era quella libertà che lui aveva perso. Perché il successo ti crea progressivamente delle gabbie, mentre Giuseppe era totalmente libero e tutto quello che ha fatto tra cinema e teatro è completamene eversivo”.
Ma perché un attore così maturo e consapevole, ancora non si è cimentato in una regia cinematografica? “Sul set de Il Capitale Umano, Virzì mi sfotteva perché tutti facevano film e io ancora no, ma era anche un po’ contento che non nascessero altri importuni. Io credo che il motivo sia che, se tu vivi di cinema e solo di cinema, l’impellenza di fare il regista prima o poi arriva. Io ho riversato tutto sul teatro, che è la mia prima casa. Ho già pagato così tanto in teatro che quando arrivo al cinema mi sembra una bellissima vacanza: avere a che fare col personaggio, col regista, con i colleghi è un bellissimo gioco. Mai dire mai, ma per ‘Na specie di cadavere lunghissimo mi è venuta la voglia di levarmi di dosso le briglie dei registi con cui avevo lavorato, per quanto fossero dei maestri assoluti”.
La fortuna di Gifuni passa anche dall’incontro artistico con due registi molto maturi, due maestri nei rispettivi ambiti: Luca Ronconi, che lo ha voluto per il suo ultimo capolavoro Lehman Trilogy, e Marco Bellocchio che lo ha portato al David di Donatello con Esterno Notte. “Marco Bellocchio è per me una tappa importantissima, non solo per i ruoli, ma per una pratica del lavoro che mi è così vicina. Adoro il suo sguardo e il suo modo di lavorare. È incredibile questa seconda o terza stagione di totale libertà, in cui questo artista sta continuando a produrre cose sorprendenti, diventando più giovane degli artisti giovani. Sono convinto che se avessi incontrato Ronconi a 30 anni sarebbe stato un disastro. Poi è arrivata questa chiamata per l’ultimo spettacolo della sua vita. Dopo tanti no, finalmente voleva che ci fossi e per me è stata una salvezza. E con Marco è stata la stessa cosa: avevo fatto tantissimi provini, ma non mi aveva mai preso e poi è successo che ci siamo incontrati nel momento per me più bello, quando sono in grado di cogliere più profondamente certe cose di un artista grande come lui”.
C’è poi Marco Tullio Giordana, che ha avuto l’illuminazione di scegliere per il suo capolavoro La meglio gioventù un trittico d’attori (Alessio Boni, Luigi Lo Cascio e lo stesso Gifuni) che avevano dimostrato di essere grandi amici nella vita reale. “Marco Tullio Giordana ci ha visti portare in trionfo Lo Cascio per la vittoria del David, e gli ha detto che è una cosa rara quando dei colleghi vogliono il tuo bene nel momento del successo. Per questo, due anni dopo ha pensato subito a me e ad Alessio. Perché diceva che questa amicizia non dovevamo recitarla, ce l’avevamo dentro. Forse tra i tanti segreti di quel film, c’è questa rete di rapporti, dentro cui lui ci lasciava grande libertà di improvvisare”.
Quel film tanto celebrato, che ha compiuto vent’anni da poco, ha segnato forse un cambio di registro decisivo per il mondo degli attori italiani. “Quella generazione ha saldato una ferita che segnava un’odiata separazione tra attori di teatro e di cinema. Che secondo me è un’aberrazione. In passato tutti facevano teatro, era normale, mentre c’è stato un periodo, in cui attori come me e Favino venivano subito respinti ai provini solo perché avevano fatto l’accademia. Gli anni ’80, ’90 e 2000 sono stati un momento tra i più bassi del nostro panorama attoriale. C’erano delle punte bellissime, ma senza organicità. La nostra generazione ha scombinato un po’ le carte”.
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