Daniele Vicari: “In mezzo al guado” tra Diaz e Limbo


BELLARIA – “Quando il tuo percorso viene messo a fuoco e gli viene riconosciuto un valore, questo ti può aiutare a fare il punto, anche da giovane”. Insignito del “premio alla carriera” del Bellaria Film Festival Doc a “soli” 45 anni, Daniele Vicari riflette così su questo riconoscimento. Che arriva mentre il suo Diaz ha da poco ottenuto 13 nomination ai David di Donatello ed è in uscita in Francia e Inghilterra e dopo aver raccolto consensi unanimi anche per un documentario, La nave dolce, realizzato anch’esso nel 2012. Autore di circa 10 film in 15 anni, equamente divisi tra cinema di finzione e del reale, Vicari viene premiato a Bellaria proprio per il contributo che dà alla ricerca del confine tra i due territori cinematografici. E come augurio per il futuro.

 

Vicari, a che punto si sente del suo percorso artistico?
Mi sento in mezzo al guado, sto ancora imparando a nuotare e a scegliere l’obiettivo, a capire i rischi che devo e posso prendermi. Il linguaggio del cinema è mutevole, non si finisce mai di impararlo. Bisogna sempre mantenere la capacità di farsi sorprendere.

 

Ultimamente ha realizzato due importanti film, non a caso un’opera di finzione come Diaz e un documentario come La nave dolce.

Non c’è una vera differenza tra documentario e film di finzione, fanno parte della stessa famiglia. Non c’è differenza tra il raccontare storie intime, d’amore, di sesso, oppure storie di guerra, di tragedia collettive o sociali: tutto sta nell’atteggiamento che hai verso queste cose. Si può raccontare un fatto intimo come se fosse un fatto sociale, e viceversa.

 

Lei però ha concentrato l’attenzione su due episodi importanti della storia italiana.

Perché credo che, soprattutto in questo periodo storico, ci sia bisogno che i nostri intellettuali, i nostri artisti si mettano in gioco e riflettano sul passato recente. Cerco le cose che mi succedono intorno e che hanno determinato il nostro modo di essere.

 

Ora sta lavorando a un nuovo film tratto da Limbo di Melania Mazzucco…
Sì, anche in questo caso sono in mezzo al guado. Sono rimasto colpito dall’esperienza di vita di questa giovane donna che torna ferita dall’Afghanistan, convinta di ciò che ha fatto e volendoci anche tornare. Mi è sembrata una storia antiretorica e che sento molto vera. Ma devo ancora trovare una chiave di lettura giusta per affrontarlo.

 

Cosa l’ha colpita di questa storia?

Mi fa riflettere sul fatto che facciamo finta di non essere un paese in guerra. Poi però quando un pazzo va in giro per strada ad ammazzare la gente col machete ci chiediamo tutti perché lo fa… Ecco, questa domanda è la tragica dimostrazione di una mancanza di coscienza.

 

Ha fatto un altro film tratto da un romanzo, Il passato è una terra straniera. Quanto è ancora attuale?

Molto, perché parla di un ragazzo che cerca un punto di riferimento e si affida a un delinquentello affascinante. E’ come le tante persone che oggi consegnano il proprio destino ai personaggi dello spettacolo, superomistici: è una cosa molto pericolosa. Ci sembra che ci portino da qualche parte invece ci portano solo dentro di loro. Ci eravamo già tutti dentro il bunga bunga…

 

Le sembra che in questo momento difficile del paese i registi italiani si stiano mettendo in gioco?
Una parte del nostro cinema lo fa egregiamente, e non da oggi. Il cinema documentario italiano produce opere bellissime: ce ne sono almeno 10 interessanti ogni anno e non so se si può dire lo stesso dei film di finzione. E’ in corso una riappropriazione degli strumenti con il documentario, gli autori prendono la parola e offrono un punto di vista libero sul mondo. Nel cinema di finzione sono pochi i produttori e registi davvero liberi.

 

Aveva accantonato il suo progetto di film su Edoardo Parodi, l’amico di Carlo Giuliani, morto pochi mesi dopo. Lo farà prima o poi?
Non ho abbandonato il progetto, ma forse, dopo Diaz, aspetterò un po’ a farlo. Ci tengo perché la storia di Edo è la storia, che sento necessaria e urgente, di una generazione: Carlo ed Edo sono due ragazzi che non hanno vissuto nessuna sconfitta e vivono l’impegno politico in modo un po’ anarcoide. Avevano la libertà di non avere legami malati con la nostra storia e, soprattutto, la libertà di reinventarsi il futuro. E’ una generazione che ha cercato di prendersi il futuro ma è rimasta schiacciata da un fatto storico. Il G8 di Genova, e poi anche l’11 settembre, una vera pietra tombale sulla parola democrazia.

01 Giugno 2013

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