Codice Carla vuole essere una password, una chiave per entrare nell’arte di questa straordinaria ballerina, Carla Fracci (1936-2021), forse la più famosa e pop del Novecento in Italia. Perché il documentario di Daniele Luchetti, prodotto da Anele e Luce Cinecittà con Rai Cinema che sarà in sala come evento il 13, 14 e 15 novembre con Nexo Digital in 150 copie, esce dal seminato e grazie a molte deviazioni di percorso illumina il personaggio di una luce inedita. A partire dalla scelta delle musiche degli Atoms For Peace edite da Thom Yorke e Sam Petts-Davies, con Yorke nel ruolo di Music Supervisor, che sono decisamente musiche in dissonanza con il balletto classico ma che tendono a esaltare la modernità dell’arte di Fracci. E poi con interviste non solo ai danzatori com’è ovvio (da Roberto Bolle a Alessandra Ferri, da Eleonora Abbagnato a Gaia Straccamore e Carolyn Carlson), ma anche a figure che incrociano il percorso di Carla in modo tangenziale o per nulla, da un attore come Jeremy Irons, alle performer Marina Abramovic e Chiara Bersani, al jazzista Enrico Rava. Infine, molto spazio hanno le interviste, commoventi e necessarie, con il marito Beppe Menegatti e con il figlio Francesco: entrambi affrontano il versante più intimo e familiare di una donna al contempo straordinaria ma anche incredibilmente semplice e ‘normale’.
Scandito per capitoli che toccano temi teorici come la manipolazione del corpo (e il dolore fisico legato alla tecnica), il daimon che pervade le interpretazioni, la spiritualità e il respiro che viene trasmesso al pubblico, il film – che ha conquistato il marito Beppe Menegatti, oggi 94enne, ancora incredulo per la perdita dopo una vita condivisa anche sul palcoscenico come regista – ci mostra una Fracci inedita, una “vincitrice contemporanea”, come dice sempre Menegatti. La presentazione ha trovato spazio all’Opera di Roma, uno dei teatri dove Carla era di casa. Enrico Bufalini, direttore Cinema e Documentaristica di Cinecittà, sottolinea come l’archivio Luce abbia partecipato al film con filmati tra cui alcuni dei primi anni del Novecento sulla danza ritmica. E annuncia che il Luce spera in futuro di ospitare gli archivi di Carla Fracci. Abbiamo intervistato Luchetti, autore di film come Mio fratello è figlio unico, La nostra vita e del recente Raffa, su un altra donna mito, come la Carrà.
Daniele Luchetti, come è arrivato al film su Carla Fracci? Era una sua passione?
All’inizio c’è stata la proposta di Gloria Giorgianni, produttrice di Anele. Mi sono preso un tempo per pensarci, perché avrei dovuto raccontare una cosa di cui sapevo poco e niente, l’avevo vista due o tre volte a teatro, non di più. Poi, mentre stavo guardando materiali di repertorio e stavo pensando a dove agganciarmi, ho ascoltato per caso Thom Yorke e la danza di Carla si è incastrata così bene che improvvisamente è stato come togliere un velo. Con una musica ritmica contemporanea emergeva l’aspetto altrettanto contemporaneo della sua arte. Quindi ho formulato alcune domande che volevo fare a Carla e altre domande da fare ai Menegatti, padre e figlio. Il figlio mi colpisce molto, specie quando parla della materia oscura che unisce tutti gli artisti. Poi c’è stata l’idea, all’ultimo minuto, di inserire la mia voce fuori campo. Il film è un mix di tutte queste pulsioni. Anche sul titolo abbiamo penato tanto, poi è arrivato qualcuno che ha detto Codice Carla ed era perfetto, perché è il codice segreto per entrare nel regno di Carla e delle performer.
Cosa ha scoperto che non sapesse e l’abbia sorpreso?
Ho scoperto che il danzatore ha le stesse necessità dell’attore, l’analisi del personaggio, la comprensione del testo, l’addestramento, lo stare sulla scena e dimenticare tutta la parte atletica e tecnica per attivare i neuroni specchio dello spettatore e captare le emozioni, perché il pubblico capisce se l’artista è in relazione con se stesso e si sintonizza addirittura sul suo battito cardiaco. Dopo il Covid il cinema si è ripreso più lentamente dello spettacolo dal vivo proprio perché il pubblico aveva bisogno del corpo, della comunicazione dal vivo. In questo, le testimonianze di Marina Abramovich, Chiara Bersani e Jeremy Irons sono fondamentali. Poi si parla anche dei temi familiari, che sono sempre gli stessi: gli artisti sono vittimisti, accentratori, rompiscatole, creano amori e rancori, disastri e legami, anche io ogni tanto parto per due mesi e lascio i miei figli da soli. Questi disastri sono comuni a chiunque fa il lavoro a salti mortali dell’arte.
Anche il jazzista Enrico Rava parla del rapporto difficile con la famiglia per un artista, Carla invece fu legatissima al padre Luigi.
Sì, quella parte mi interessa molto e anche quando Rava accenna alla democrazia perfetta che si crea sul palcoscenico quando chi suona entra in sintonia con gli altri musicisti. Marina Abramovich ha messo il suo corpo al servizio degli spettatori e ha creato una famiglia alternativa, ma parla anche dello spazio sacro attorno a sé. Jeremy Irons sottolinea l’emergere di sentimenti inattesi nella performance attoriale. Chiara Bersani, con la sua capacità di mettersi in gioco anche nella disabilità, ha illuminato il concetto di bellezza e liberato la danza dal nazismo del corpo perfetto. Non parlo solo di danza, perché il mio pubblico ideale sono anche i non appassionati e non esperti di balletto.
C’è anche un riferimento all’impegno politico di Carla, alla sua battaglia per i fondi alla danza.
Sì, lei è stata anche un ‘animale politico’, basti pensare agli spettacoli realizzati all’interno dei tendoni da circo, spazi immensi a basso costo per il pubblico, ma non ci siamo soffermati su questo singolo aspetto. Spero invece che il documentario abbia una funzione anche didattica, che faccia scattare passioni, soprattutto tra gli adolescenti. Io non ho mai danzato, ma ora mi è venuta voglia di farlo.
All’inizio del film lei racconta del suo primo, mitico incontro con Carla Fracci, a Cinecittà, dove lei, giovanissimo, si era intrufolato.
Volevo già fare il regista e allora dove andare se non a Cinecittà? Quell’anno, il 1981, avevo incontrato Fellini a Fregene e mi aveva invitato ad andare a settembre agli studios. Così ho scavalcato e sono entrato nel teatro, lui non c’era, ma mi sono trovato su un set dello sceneggiato di Renato Castellani su Giuseppe Verdi, con interpreti Roland Pickup e proprio Carla Fracci. Ricordo che Carla mi fulminò con lo sguardo e che fui subito cacciato. Ma immediatamente dopo, non contento, mi intrufolai sul set di Liliana Cavani, che stava girando La pelle e in particolare la scena del Vesuvio in eruzione. Siccome quella scena stava venendo un disastro, suggerii di girare al ralenti e mi sedetti addirittura sulla sedia da regista di Liliana. Mi si avvicinò un tizio con l’aria feroce ma per fortuna venne fuori che conosceva mia madre e così mi salvò dal linciaggio.
Com’è andata la collaborazione con Thom Yorke?
Gli abbiamo mandato un minuto di danza con il commento del suo pezzo chiedendo se volesse fare le musiche del film, ma lui ha suggerito di usare le piste rimontandole in modo diverso, per esempio solo la voce, o solo le linee melodiche, o le percussioni. Infine, a Roma, è venuto al montaggio con il suo produttore musicale e sono saltati fuori molti inediti. Tra l’altro farà le musiche anche del mio nuovo film e il mio sogno è fare un’opera insieme.
C’è finalmente un buon momento per il cinema italiano, in particolare con gli incassi dell’opera prima di Paola Cortellesi che guida il box office.
Stanno arrivando in sala una serie di scommesse fatte su alcuni film, che sono ben pensati, ben scritti e finanziati con budget importanti, bisogna capire se questo renderà. Ma c’è stato per la prima volta un ragionamento strategico. Ora cerchiamo di capire se un maggiore investimento sul prodotto, riuscirà ad attirare il pubblico.
Il cinema, come lei giustamente diceva, ha sofferto molto il periodo post Covid, anche per un’esigenza di presenza in scena, di contatto. Forse però adesso ci stiamo lasciando alle spalle quel periodo.
Due anni di Covid sono stati come vent’anni dal punto di vista della produzione culturale. C’è stato il bisogno anche di fare qualche passo indietro, di tornare a teatro – che poi per me è un passo avanti – perché vuol dire tornare a un bisogno fisiologico, quello di stare in comunità. Sicuramente non si possono fare gli stessi film che si facevamo prima della pandemia.
Sta lavorando al nuovo film?
Sto concludendo l’edizione di un film tratto dal romanzo di Domenico Starnone Confidenza con Elio Germano, ma non ne posso ancora parlare.
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