Torna a Roma in proiezione-evento al Cinema Farnese (piazza Campo de’ Fiori, 56), a grande richiesta dopo una prima sold out nella storica sala di Campo de’ Fiori, Bosnia Express, il film diretto da Massimo D’orzi distribuito da Cinecittà, prodotto da Loups Garoux e Il Gigante, che a trent’anni dall’inizio delle guerre nella ex-Jugoslavia restituisce con testimonianze visive cariche di forza poetica, storie, luoghi, voci, tragedie e rinascite di terre che hanno vissuto il più grave fatto di armi recente del nostro continente. Quella guerra vicinissima a noi e che rapidamente è stata relegata a fatto storico passato, mentre è anche da quei fatti e quelle storie che nasce l’Europa che vorremmo unita, e che per le stesse ragioni che causarono la guerra troviamo spesso divisa.
Già presentato e applaudito al recente Trieste Film Festival e al Festival Visioni dal Mondo di Milano, il documentario ha iniziato un tour nelle sale italiane il 1 febbraio, riscuotendo sinora un’ottima attenzione di pubblico, nonostante il periodo di incertezza. L’exploit della prima romana al Cinema Farnese ha portato alle due repliche del 15 e 16 febbraio, entrambe alle 19.30, che vedranno il regista Massimo D’orzi, con il cast e la produzione incontrare il pubblico per raccontare le tante storie e risvolti di un reportage poetico che ha l’urgenza della memoria e della bellezza.
Avidità di potere, fanatismi religiosi, volontà politiche travestite da valori e tradizioni, sono raccontati nel film, ma non direttamente e cronachisticamente. Al centro del film sta invece la vita dove pareva non ci fosse più che morte: protagoniste sono le donne, le prime vittime dei conflitti, qui invece al centro di espressioni vitali, artistiche; di tante musiche, canti, danze, teatro, immagini di cinema. Nessuna guerra ha un volto di donna ci dice il film, mentre assistiamo a una vita che riprende piano, con sofferenza e dignità, il suo posto in città che si chiamano Sarajevo, Srebrenica, Mostar, e quasi come sottofondo ci arrivano i nomi di fuoco di Milosevic, Mladic, Tudjman…
E ancora dalla voce delle immagini sappiamo che la vera immagine di una guerra, quella che più ferisce, non è la morte, ma la vita. Bosnia Express ce lo conferma appieno, quando vediamo volti magnifici di donne unite in un coro presso la stazione di Tuzla, giovani ballerine classiche, gruppi punk-rock che cantano un’indipendenza su paesaggi meravigliosi che la Storia ha voluto far crollare.
Il film indaga sotterraneamente le cause, e la sua più profonda denuncia è che in questi luoghi non smette di brillare un’inesausta bellezza.
Un treno attraversa lento il cuore della Bosnia Erzegovina: Sarajevo, Tuzla, Srebrenica, Konjic, Mostar. Donne, religione, guerra, violenza, arte lanciati sullo schermo come dadi su una scacchiera o giocati alla roulette russa. In palio vita o morte, verità o menzogna. La macchina da presa indaga dietro il ritrovato ordine delle cose. Fin dove può giungere lo sguardo per conoscere? Una scuola di danza, i corridoi della facoltà di pedagogia islamica, le aule di musica rock, la collina di Medjugorjie, sono i luoghi da cui i personaggi muovono l’inchiesta. Ma come è possibile chiedere ai carnefici o alle vittime conto di un orrore? La guerra non ha un volto di donna. Non è successo niente in Bosnia Erzegovina. Niente.
“Si va in Bosnia per perdere i propri confini (mentali) – dice il regista – Per acquisirne di nuovi. Vi si entra chiedendo il permesso, preoccupandosi di fare attenzione a non innervosire nessuno, di togliere le scarpe e premunirsi di lavarsi le mani e i piedi prima di entrare in moschea e in men che non si dica si finisce su quella giostra che dopo ripetuti giri ci riporta al punto di partenza.
La Bosnia è un luogo di frontiera. Ma quale frontiera? Frontiera di accesso per i musulmani in Europa? Per i cattolici spinti a Est che vorrebbero insinuarsi nelle terre storicamente governate dalla Chiesa d’Oriente? Frontiera di un’Europa che latita, frontiera d’Oriente e Occidente, di scismi ed eresie. O terra di nessuno, dei bosniaci. E basta. Lasciati soli e, talvolta, fieri di esserlo.
Il libro di Leone mi offriva la struttura su cui far scivolare i miei pensieri, le mie visioni, i miei incanti, i miei innamoramenti.
Schermito di fronte alla morte, rinascevo improvvisamente sulle note di un pianoforte toccato dalle dita di una bambina o col sorriso di una ragazza avvolta in un velo color porpora. Se la natura è neutrale le immagini non lo sono. Il primo intento era quello di indagare in quel groviglio di interessi politici, etnici, religiosi e criminali.
Bosnia Express è la terza tappa di una trilogia iniziata nel nel 2003 con La rosa più bella del nostro giardino, proseguita nel 2004 con Adisa o la storia dei mille anni, un’avventura nella notte balcanica inseguendo la danza immobile dei carretti fantasma popolati da zingari impauriti che avevano smesso di ridere.
Con Bosnia Express mi sono illuso di avere in mano il biglietto per documentare le scorribande, le innumerevoli atrocità, le complicità perpetrate a vari livelli. Ma ho finito per arrendermi di fronte ai volti di donna che mi fornivano un’altra verità. Se vuoi capire cosa è successo in ex-Yugoslavia guarda nei nostri volti. Ma la guerra non ha un volto di donna! Nel documentario, la parola, il commento, che inizialmente volevo banditi, sono stati uno strumento fondamentale per raccontare i mille interrogativi. Le immagini da sole non erano sufficienti a restituire quella complessità che percepivo alla fine di ogni giornata di riprese quando assistevo sconfitto al giudizio dei bosniaci che nemmeno tanto celatamente mi guardavano convinti di veder crollare l’ennesimo straniero giunto fin lì con tutte le buone intenzioni.
Il documentario assume di volta in volta la forma di un diario intimo alternando rappresentazione, racconto e metafora, fra tragedia, ironia e poesia legate insieme da un filo sottilissimo.
Un film pieno di interrogativi che il suo autore gira direttamente agli spettatori per riannodare i fili della Storia e vincere le lusinghe dei luoghi comuni rischiando di perdersi innumerevoli volte all’interno della giostra balcanica.
Nel 2004 Massimo D’orzi, regista, scrittore e produttore, gira Adisa o la storia dei mille anni, film documentario ambientato fra le comunità Rom della Bosnia Erzegovina, presentato in numerosi festival internazionali e distribuito in molti paesi del mondo. Nel 2009, in collaborazione con il CSC, realizza Sàmara, suo primo lungometraggio di finzione, da lui scritto e diretto, con Filippo Trojano, Marco Baliani, Federica Pulvirenti, uscito in sala nel Marzo 2012 e adesso nuovamente distributo da Whiterose Pictures.
Nel 2010 realizza il documentario Ombre di luce ambientato all’interno dell’Università La Sapienza di Roma. Il 2011 è l’anno di Ribelli!, un documentario in co-regia con Paola Traverso, uscito in libreria allegato all’omonimo libro per Infinito Edizioni. A Marzo 2016 pubblica il suo primo romanzo “Tempo imperfetto” ispirato ad un caso di cronaca nera, edito da L’Asino d’oro di cui riceve il premio speciale Cinema&Libri.
Nel 2020 conclude Bosnia Express ispirato al libro omonimo di Luca Leone.
Attualmente sta sviluppando il suo nuovo film dal titolo provvisorio Miraggi con Massimiliano Nardulli (LIM) e Ja Sam Ana di Ado Hasanović di cui è cosceneggiatore e produttore delegato. È ideatore e curatore insieme a Nardulli e Vannucci del worhshop internazionale TSFM Word-Frame. Dal 2014 collabora con il settimale ‘Left‘ su cui scrive di cinema e letteratura.
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