“Amour”, fino alla morte


CANNES – Se non fosse che Nanni Moretti non ha mai fatto mistero di detestarlo, Michael Haneke potrebbe candidarsi a una seconda Palma d’oro, dopo quella vinta per Il nastro bianco in questa domenica di festival, triste, invernale e piovosa (ma sempre con migliaia di cinefili in coda fuori dal Palais). C’è voluta una proiezione supplementare stamattina per l’attesissimo Amour, dato che quella delle 8,30 per la stampa è andata ben presto esaurita, molto prima dell’orario di inizio. Merito della grande attesa che circondava il film e soprattutto il ritorno al cinema, 14 anni dopo Ceux qui m’aiment prendront le train, di Jean-Louis Trintignant, attore mitico sia per il cinema francese che per quello italiano, a partire dal Sorpasso di Dino Risi. Attesa per una volta ben riposta. Infatti per Amour, che in Italia uscirà con Teodora il 31 ottobre, già si parla di capolavoro e non solo per la bravura degli interpreti: oltre a Trintignant, Emmanuelle Riva, anche lei ottuagenaria e spudoratamente brava.

Il film, che dà un senso nuovo alla riflessione sulla natura della violenza (in questo caso diremmo piuttosto sulla violenza della natura) tipica del cineasta austriaco, si svolge tutto in un appartamento. L’appartamento borghese di una anziana coppia di intellettuali, musicisti entrambi, Georges e Anna. Il loro ricco passato è testimoniato dai tanti libri e spartiti, dal bel pianoforte a coda del salotto, dagli album di fotografie e dai dischi che a volte riascoltano. La vita scorre serena, li vediamo andare insieme a un concerto (l’unica scena fuori dall’huis clos). La figlia Eva anche lei musicista (Isabelle Huppert, presenza costante per Haneke da La pianista in avanti) vive a Londra ed è molto presa dal suo mènage matrimoniale non proprio risolto e dalle tournée.

Improvvisamente, una mattina, mentre i due vecchi fanno colazione, Anna ha un vuoto, non risponde più al marito, non reagisce più, poco dopo si riprende ma senza ricordare l’accaduto. È l’ictus che la porterà con un lento ma inesorabile percorso di decadimento psicofisico verso l’irreparabile, accompagnata da un estremo, totale gesto d’amore di Georges. Eutanasia, certo. Che il film ci mostra con commovente e asciutta grazia. L’avevamo intuito fin dalla prima scena in cui vediamo la polizia entrare nell’appartamento sigillato e invaso dal cattivo odore per trovare il corpo di Anna disteso sul letto, ben vestito, col capo circondato di fiori, avvolto in una serenità assoluta.

“Arrivando a una certa età – chiarisce il 70enne cineasta che ormai lavora in Francia come a casa propria – ci si deve per forza confrontare con le sofferenze di chi amiamo e anch’io l’ho sperimentato”. E Isabelle Huppert, che curiosamente sarà interprete anche di un altro film sull’eutanasia, Bella addormentata di Marco Bellocchio, aggiunge a proposito del suo personaggio, incapace di dare un reale sostegno ai suoi cari che pure ama: “Eva non è crudele verso i suoi genitori, è la situazione che è crudele. C’è qualcosa che separa inevitabilmente i morti dai vivi. Per lei la vita è un fiume che scorre ancora, mentre nella casa dei suoi c’è qualcosa che va verso la fine, verso l’esaurimento”. Felice del ruolo Emmanuelle Riva, che mostra con coraggio il suo corpo anche nudo e tutta la via crucis della malattia, la paralisi, la rabbia, il non voler più vivere, l’incapacità di deglutire, il linguaggio che via via regredisce, sempre accudita dal marito. Racconta la Riva, che esordì con Hiroshima mon amour: “Niente mi è sembrato difficile, per due mesi mi sono messa al posto di Anna gioiosamente”. Ancora, un giornalista domanda a Isabelle Huppert – che oggi è in concorso anche con la commedia coreana In Another Country di Hong Sangsoo – come sia subire la violenza della rappresentazione, ma lei replica decisa: “Non sono gli attori che soffrono, ma gli spettatori”. E a questo punto Haneke ha l’occasione per una precisazione che sta evidentemente a cuore: “Non mi sento uno specialista della violenza, come spesso si dice”.

Girato quasi del tutto in sequenza cronologica, Amour è, come dice il suo autore, un “film semplice” ma di una complessità umana che non può lasciare indifferente nessuno.

 

Cristiana Paternò
20 Maggio 2012

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