Dopo aver vinto il Premio speciale della giuria e il Premio Fipresci della Sezione Orizzonti di Venezia 80, Alain Parroni ha presentato la sua opera prima Una sterminata domenica in chiusura all’Efebo d’Oro Film Festival di Palermo. Proprio dove, pochi giorni prima, era stato premiato con L’Efebo d’oro alla carriera Wim Wenders, che figura tra i produttori del film. Una sterminata domenica è un lungometraggio ruvido in cui si raccontano le giornate scombinate di tre adolescenti, ossessionati dall’idea di lasciare un segno nel mondo che li circonda.
Alain Parroni, a Palermo Wim Wenders ha espresso parole al miele per te e per il tuo film? Cosa vuol dire avere avuto il suo supporto produttivo e artistico? Cosa lo ha fatto innamorare del tuo progetto?
Il film produttivamente inizia con Giorgio Gucci, che ha avuto l’idea di contattare Wim Wenders per avere non solo un supporto produttivo canonico ma anche un supporto artistico, perché il primo film è sempre un po’ rischioso. Wim ha letto la sceneggiatura e tutti i materiali coordinati – c’erano tante foto, le interviste che avevo fatto a degli adolescenti, dalle quali poi ho preso la protagonista – ha capito che c’era dietro qualcosa di solido. Wim mi ha dato la sicurezza di girare come se non avessi nulla da perdere: è stato come essere riconosciuto da un padre che non hai mai incontrato. Ci ha permesso di fare quello che dovrebbe fare un’opera prima: far emergere uno sguardo. Al netto degli scivoloni e delle imperfezioni, quello che deve fare un’opera prima e non lasciare indifferente lo spettatore.
Proprio Wenders ha parlato del suo cinema come un’ibridazione tra fiction e documentario. Una caratteristica che ho notato anche in Una sterminata domenica. Quanto c’è di documentaristico nel film?
La sceneggiatura iniziale, sviluppata durante il TorinoFilmLab, era molto canonica, anche molto solida. Tornava tutto in maniera perfetta, era tutto accogliente. Volevo raccontare il dramma dell’adolescenza in maniera diretta, molto schietta, quasi pornografica. Sentivo però che non passava l’emozione anche di frustrazione che ho provato durante l’adolescenza, quindi ho pensato di troncare quelle aspettative: magari iniziare una scelta che poi non porta a niente, o giocare con il ritmo. Ho pensato che fossero elementi che potevano restituire ancor di più il tipo di emotività che provavo durante l’adolescenza. Abbiamo preso la sceneggiatura e abbiamo iniziato a spulciarla per capire quali erano le immagini e i suoni che trasmettevano quello stato emotivo che volevamo, fregandocene anche di una storia ricca di colpi di scena, tenendola molto semplice. Piuttosto che una storia di intrattenimento è più una storia osservativa, in cui è come se spiassi da un finestrino la vita di questi ragazzi. Avevamo poco tempo per girare, quindi avevo tutto chiaro in testa. Poi è chiaro che i protagonisti avevano quell’energia così forte, così brillante, che sapevo che poteva appoggiarmi sulla loro spontaneità. Alcune scene sono improvvisate, come la prima scena, quella in cui si buca la ruota, o come la battuta che dice Kevin sul finale. In sceneggiatura era molto più elaborata, ma Zackari aveva così tanto interiorizzato il personaggio che in maniera spontanea l’ha sintetizzata cosi: “Ho sedici anni!”.
La Beat generation è stata un’ispirazione per questa storia di formazione così atipica?
Quando parli con un produttore devi trovare un genere che lo faccia sentire rassicurato e naturalmente il film di formazione mi sembrava la dicitura più esatta. C’è sia la Beat Generation, che la Nuova Hollywood, ci sono tante cose, tutte quelle branche di cinema che hanno avuto la libertà di raccontare diverse generazioni. Alcune delle ispirazioni che mi hanno colpito di più sono tutti quei film giapponesi dei primi del 2000, che sono molto sinceri, perché hanno subito capito come usare il mezzo digitale. Hanno raccontato dei drammi adolescenziali con delle microcamere, che in Italia non erano ancora arrivate, ma che in Giappone sono subito state inserite nel linguaggio cinematografico. Quando ho iniziato a studiare quel periodo, ero totalmente saturo da tutte quelle produzioni che erano arrivate in Italia. Erano tutti imbrigliati in quelle narrazioni americane, perfette, soprattutto con Netflix e le altre piattaforme. Quando ho scoperto come le nuove generazioni venivano raccontate in Giappone, mi ha tanto scioccato. Spesso, facciamo fatica a capire i film asiatici, ma non sono loro che a essere strani, siamo noi che siamo abituati alle strutture hollywoodiane.
Interessante la scelta di scegliere la domenica per rappresentare questo stile di vita. È un po’ il giorno della noia?
La domenica sembra su carta il momento dove accade tutto – il calcio, la formula uno, gli hobby, le cose belle – ma in realtà poi è una giornata vuota, in cui non fa niente e in cui sei terrorizzato dall’arrivo del lunedì. È un po’ il momento dell’adolescenza.
È più una questione adolescenziale o generazionale?
Quando facevo le interviste a questi ragazzi e ragazze, sentivamo come se ci fosse la necessità di lasciare una traccia, come se si stessero perdendo qualcosa. Io queste interviste le facevo anche a scadenza di due anni. Federica l’ho incontrata a 14 anni, poi a 16, poi a 19. Mi rendevo conto che le idee sulla politica, sulla cultura, su tutto, non cambiavano minimamente. Era come se fosse incastrata in un loop. Era un sentimento che mi ha colpito tanto. Quando senti la necessità di lasciare una traccia e magari non hai gli strumenti adatti, l’unico modo che trovi è quello di riprodurti, quindi mettere al mondo un’altra vita. Forse la mia generazione è quella che ha dato il via a questo modo di percepire la vita. Tutte le generazioni vengono definite come bruciate o annoiate, ma durante la mia adolescenza non è successo davvero niente, non abbiamo avuto neanche il covid, quelle prima avevano avuto delle guerre.
Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo prossimo film?
Il primo film è un po’ per cercare il proprio sguardo interiore. Il cinema per me è uno strumento per lasciare una traccia. E per il futuro sto sviluppando delle cose legate al disegno, mi piacerebbe tirare su un progetto d’animazione. C’è molto fermento in questo momento, anche perché l’animazione è diventata più semplice da fare, ma in Italia non ci sono schemi produttivi precisi. Fandango mi hanno detto che proprio non sanno come fare il budget. Per fortuna Shirō Sagisu, il compositore del film, viene dal Giappone e mi sta un po’ introducendo a quel mondo. Una persona come me, che è cresciuta nella campagna pasoliniana, è cresciuta anche con gli anime e i manga. Siamo una generazione che è cresciuta più di tutti con i film e la televisione, i nostri genitori non ci hanno insegnato nulla rispetto a quello che ci hanno insegnato i film, a comportarci, a stare con le altre persone, a come stare in intimità con una ragazza. Con tutti i fatti gravi di cui sentiamo parlare in questi giorni, sento parlare tanto di educazione alla sessualità e non si capisce che le serie e il cinema sono il nostro principale strumento educativo. È quello che ci fa compagnia, che ci fa capire il mondo.
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