In un certo senso, Anthony “Tony” Soprano è sempre stato destinato a diventare un boss della mafia italoamericana. È quello che faceva suo padre, quando era più piccolo. Ed è il mondo in cui ha vissuto. Nessuno si aspettava di vederlo con un lavoro d’ufficio o a capo di qualche azienda. I suoi insegnanti, al liceo, avevano notato che aveva un cervello niente male, che era capace, carismatico e ambizioso. Ma sua madre, Livia, non la pensava allo stesso modo: chi, Tony? Intelligente? Ma si figuri!
L’adolescenza di Tony è stata una versione estremamente semplificata e meno cinematografica di Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese: la violenza, per lui, era una costante, qualcosa con cui fare i conti ogni giorno. Un’estensione, talvolta, di se stesso. Se non puoi esprimerlo a parole, usa i pugni. Se il tipo lì all’angolo continua a fissarti, non aspettare: reagisci. Siamo in una giungla, e se vuoi sopravvivere devi essere il primo ad attaccare. Non c’è nessun romanticismo di intenti e obiettivi, in questa filosofia. Tutti, alla fine del giorno, sono soli. I parenti, gli amici, i compagni: sono incidenti di percorso, qualcosa con cui dover fare i conti, prima o poi.
Da adulto, Tony ha avuto problemi con suo zio Junior, che l’ha visto come un rivale e non come un alleato. Ha dovuto combattere per rimanere in sella, per sopravvivere, e questo aspetto della sua vita non gli ha mai dato fastidio: era, dopotutto, la sua vita. Un leone non si chiede che cosa può provare una gazzella che viene cacciata: è un leone, è la sua natura. Le vere difficoltà sono iniziate quando la sua famiglia e l’atmosfera di casa hanno cominciato a chiudersi intorno a lui come tende spesse e polverose: la luce del giorno è sparita, e l’aria si è fatta improvvisamente rarefatta.
Si è sentito soffocare, Tony. E lo ripetiamo: non per i morti ammazzati, per gli attentati, l’FBI pronto a – avrebbe detto lui – fotterlo. No. Per sua madre, Livia, che non gli ha mai permesso di sentirsi libero, compiuto e soddisfatto. Per le amanti, per sua moglie e i suoi figli. È la normalità, la cosa con cui Tony non è mai riuscito a fare i conti. La normalità e le aspettative di una società patetica e mediocre, dove i criminali come lui sono i cattivi, e per carità, va bene, ma dove tutti hanno sempre fatto finta di non vedere le mazzette date ai poliziotti, i negozianti infami, le truffe delle grosse corporazioni e dei ricchi.
Tony è nato a Newark e a Newark ha trovato il suo posto. Enorme, feroce, deciso. E brillante. È uno che ragiona, lui. Non spara al primo che capita, non si lascia condizionare dagli altri; sa esattamente come condurre gli affari, che restano una cosa distinta rispetto alla vita privata. Andare in terapia, per Tony, è stato come una sconfitta, specialmente all’inizio. Perché non è così che è stato cresciuto. Ha dovuto mentire, nascondere, fare finta di niente. E intanto, sotto sotto, soffriva. Aveva attacchi di panico, si sentiva mancare. Tutti i rimpianti di quello che avrebbe potuto essere e che non è mai diventato, tutte le promesse mai mantenute, i sogni (veri o a occhi aperti) e le aspirazioni si sono accavallati, sovrapposti e ingigantiti, rischiando, fino alla fine, di sommergerlo e di portarlo giù, nel nero più intenso.
È uno dei buoni, Tony? O è, come dicono tutti, un violento? Forse, la verità è che a questa domanda non c’è una risposta. Tony è sempre stato se stesso. E sì: ha ucciso, raggirato, minacciato, offeso, derubato. Ma ha agito adeguandosi all’ambiente circonstante, si è preparato al peggio; ha provato a trarre il massimo da ogni situazione. Questo fa di lui un mascalzone? Sì, certo: chi dice di no. Eppure è in questo modo che è venuto su. I Soprano, la serie di David Chase andata in onda più di dieci anni fa sulla Hbo, non ha mai provato a trasformarlo in una figura positiva o a esaltarlo; ha giocato con le contraddizioni e con le assurdità della sua vita. Un boss mafioso che ha più paura delle urla di sua madre che di un proiettile in testa. Un uomo grande e grosso che ha provato, nel suo piccolo, a cercare e a coltivare la bellezza ma a cui è stato costantemente impedito di riuscirci.
La rivoluzione di Chase – perché sì, è stata una rivoluzione – è stata quella di partire dai fondamentali, dall’ABC. Non dando niente per scontato e non cercando mai la soluzione più facile. E perché, poi? Tony è la sua storia, coincide esattamente con il suo attore, James Gandolfini. Ha un carattere, un passato – recuperate, se non l’avete ancora fatto, The Many Saints of Newark – e una famiglia. Soprattutto questa. Il nostro vero dramma. Tutto il resto, che c’è ed è amplissimo, rumoroso, ricco e così contorto da sembrare (e forse lo è, chi lo sa) vero, viene quasi di conseguenza: è come l’ombra di una sagoma che viene proiettata su un muro. Tony è la sagoma, l’ombra è tutto il resto; il muro è la serie, e la luce che ritaglia l’ombra è la scrittura di David Chase e l’interpretazione di Gandolfini.
È sempre stato destinato a diventare un boss, Tony. L’abbiamo detto all’inizio. Ma nel racconto de I Soprano gli archetipi arrivano fino a un certo punto. Poi arriva la vita, arrivano le complicazioni, le sfumature; arriva un uomo che si siede su una poltrona, davanti a un’analista, e dice: mi vengono questi mancamenti, questi capogiri; non so cosa siano, mi dia qualcosa. E lei, l’analista: parliamone. E lui, l’uomo: non è questo quello che mi hanno insegnato. È l’epopea dell’uomo moderno. C’è sempre da imparare, sempre. Anche se ti chiami Tony Soprano e vivi una vita da protagonista.
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