Rust, lo specchio di ‘True Detective’

Una vita da protagonista. Personaggi che hanno cambiato per sempre la serialità televisiva


A Rust piacciono le sigarette Camel. Praticamente non fuma altro. E anche Marty, il suo collega, lo sa. Quando è andato a trovarlo in ospedale, l’ultima volta che si sono visti, gliene ha regalato un pacchetto. Hanno parlato di luci e tenebre, di chi sta vincendo e di chi sta perdendo. E alla fine, nonostante il suo animo profondamente nichilista, Rust è sembrato speranzoso. Ma il punto, forse, non è questo. Il punto è che Rust è un uomo atipico, cinico, profondamente disilluso e disincantato. Pensa che gli esseri umani siano pezzi di carne senzienti, che hanno ignorato qualunque regola della natura: i sentimenti sono un problema, un ostacolo; gli altri animali non li provano, non così, non come noi.

Nel corso degli anni, ha lavorato prima per la squadra specializzata in furti e rapine, poi per la narcotici. Ha cominciato ad assumere droghe, ad abusarne. Ed è cambiato. La vita con lui non è mai stata generosa. Ha passato la sua infanzia in Alaska, insieme a suo padre, Travis, un veterano della guerra del Vietnam. Successivamente, è tornato nel Texas dove si è innamorato e sposato con Claire. Hanno avuto una bambina, Sophia, morta a due anni per un incidente. Dopo quel tragico avvenimento, il matrimonio è andato velocemente a rotoli e Rust è rimasto solo. E quando, durante un’indagine, ha sparato in testa a un uomo per aver ucciso sua figlia iniettandole metanfetamine, si è trovato davanti all’ennesimo bivio. Gli è stata offerta una possibilità: andare sotto copertura o in galera. Rust ha scelto la copertura, e per anni interi si è diviso tra cartelli messicani e bande di motociclisti.

Le agenzie federali se lo scambiavano come una pedina, non tenendo minimamente in considerazione la sua fragilità. Dopo essere stato quasi ucciso in una sparatoria, ha chiesto di essere trasferito nella squadra Omicidi della Louisiana. Ed è qui, se volete, che comincia la sua storia. Quella che conosciamo tutti. Le indagini del Re Giallo e di Carcosa. Rust – che in realtà, è il caso di dirlo, si chiama Rustin Spencer Cohle – è un ottimo detective. Ha una mente razionale, capace di cogliere anche i più piccoli dettagli. È sempre andato in giro con uno di quei blocchi da ritrattista, grossi e spessi, e per questo motivo i suoi colleghi, con cui non ha mai avuto un gran rapporto, lo hanno soprannominato “Tax Man”, l’uomo delle tasse. Pronto a incassare debiti e a ricordarti scadenze. L’unico con cui, dopo tanti alti e bassi, si è trovato bene è stato Marty – Martin Hart, cioè.

Rust è magro, sottile, nervoso. Per qualcuno è strano; per qualcun altro, invece, è solo un pazzo. E ciò nonostante, per diversi anni, molti dipartimenti hanno chiesto il suo aiuto per interrogare gli indagati. Perché Rust sa quando menti, sa che hai bisogno di essere ascoltato e di dire la verità; lo sa. E dopo averti fatto credere che c’è spazio per il perdono ti abbandona: ti dice che meriti di morire per quello che hai fatto, e te lo dice con la stessa freddezza della voce registrata della segreteria telefonica.

Avrebbe potuto essere promosso, ricevere i gradi, e invece annoiato dalle dinamiche interne al dipartimento, trascinato a forza nei litigi e nel rapporto tra Marty e sua moglie Maggie, ha deciso di dimettersi. E da quel momento, per molto tempo, ha fatto perdere qualunque traccia di se stesso. Dice di essere tornato in Alaska, da suo padre malato di leucemia. Ma chi lo sa. Rust è fatto così. Sembra il protagonista di un racconto di Edgar Allan Poe, così oscuro, così respingente e così incredibilmente a fuoco.

Se True Detective, la serie creata da Nic Pizzolatto, ha raggiunto il successo che ha raggiunto è stato in buona parte – diciamo anche in gran parte, via – per i suoi personaggi. Rust, appunto, e Marty. E in particolare Rust, che è stato interpretato così magnificamente da Matthew McConaughey, si è ritagliato uno spazio speciale all’interno dell’immaginario degli spettatori. Perché assurdo, respingente, con queste idee pseudo-filosofiche, nichiliste, talvolta orrende. Ma pure carismatico, affascinante, bello e misterioso. È come uno specchio, Rust. Uno specchio in cui, alla fine, ciò che vediamo non è altro ciò che siamo. Con le nostre paure, le nostre convinzioni e le nostre mostruosità. Perché nessuno è buono, non davvero. E sono i cattivi, come spiega Rust a Marty, a impedire agli altri cattivi, quelli più feroci, di fare del male agli innocenti.

True Detective non è una serie lineare: ogni stagione è indipendente, come il capitolo di un libro più grande, dove i personaggi principali cambiano di volta in volta; eppure sono innegabili i collegamenti che tengono insieme le varie puntate. Per esempio, ed è un piccolo spoiler: nella quarta stagione è presente Travis, il padre di Rust. Queste sono solo storie, e lo sappiamo. Qualcun altro, in modo quasi dispregiativo, aggiungerebbe: è solo tv. Ma non è così; o almeno, ecco, non è solo così. True Detective, come tante altre serie di questi anni, ha ribaltato canoni e punti di riferimento, si è riappropriata innanzitutto della scrittura (la scrittura, sissignore: anima e cuore di ogni cosa) e ha dato agli attori, come McConaughey, una possibilità per essere altro e trasformarsi.

Sotto strati e strati di cinismo e di battute sprezzanti, di ragionamenti cervellotici e ingarbugliati, Rust rimane un uomo fragile e insicuro. Come tutti, del resto. E unicamente alla fine, quando il peggio è passato, quando il male ha ricevuto l’ennesimo duro colpo, sembra ritrovare uno spiraglio di speranza. E forse la sua vita da protagonista inizia esattamente in questo momento, non prima: quando le domande superano le risposte e non ci sono più episodi da vedere.

Gianmaria Tammaro
28 Gennaio 2024

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