Holden Ford, con ‘Mindhunter’ è il prototipo di un nuovo detective televisivo

Una vita da protagonista. Personaggi che hanno cambiato per sempre la serialità televisiva


A Holden piacciono i rompicapi. Piace, cioè, vedere le cose da un’altra prospettiva, dissezionarle, capovolgerle e persino distruggerle se può essergli d’aiuto per capirle. Faceva il negoziatore per l’FBI, ma si sentiva quasi fuori posto: gli veniva chiesto di fare sempre lo stesso, seguendo procedure, ripetendo le regole, dando lezioni agli altri agenti. Era finito in una gabbia, in un loop, e lo sapeva. Per questo non appena gli si è presentata la possibilità di cambiare, di darsi al profiling, l’ha colta.

È un uomo intelligente, Holden. Forse troppo intelligente. Fatica a vedere la realtà nello stesso modo in cui la vedono gli altri, e questa è sia una fortuna che una sfortuna per lui. Una fortuna perché, ovviamente, lo aiuta nel suo lavoro, e cresce, impara, apprende. È una spugna, praticamente. Ma è pure una sfortuna perché avere dei rapporti genuini e sani con le persone – i colleghi, gli amici, le donne – diventa una sfida costante. Il punto, però, non è questo. Il punto è che ad Holden è riuscita una cosa che a pochissimi altri, nella loro vita, succede: trasforma non la sua passione, ma la sua ossessione nel proprio mestiere.

La mente umana, con tutte le sue contraddizioni e mostruosità, si trasforma nell’ennesimo rompicapo da spacchettare, rivedere e ricostruire. Holden si muove in un mondo senza regole, che praticamente non esiste ancora. E l’FBI gli dà fiducia, spazio e risorse. I suoi metodi vengono tramandati e ripresi. È l’epoca dei serial killer, delle grandi indagini, e Holden lo sa bene. Si sente un pioniere e non sembra conoscere mezze misure quando parla con gli altri. Dà giudizi sommari, giudica, critica chiunque e qualunque cosa. E questo, se possibile, lo rende ancora più solo.

Gli unici che lo trovano interessante sono gli assassini che studia: si nutrono della sua curiosità, delle sue domande, e si sentono improvvisamente – e nuovamente – importanti. E Holden non se ne accorge. Almeno, non subito. Deve prima trovarsi spalle al muro, schiacciato dall’ansia e dagli attacchi di panico, per capire: sta giocando con il fuoco; si è inoltrato in un universo dove tutte le cose che sa, e che ha sempre ripetuto agli altri agenti, non valgono più.

Pensava di essere speciale, il migliore di tutti, e l’arroganza l’ha condotto in un angolo senza via d’uscita. Non ci sono domande che possono aiutarlo; non ci sono trucchi, diciamo così, che possono mettere una distanza tra lui e i serial killer. Il male l’ha stretto in un abbraccio fatto di pulsioni, minacce velate e puro terrore. Il cacciatore si è trasformato in preda ed è stato tutto veloce e subitaneo. Senza pause, senza preavvisi. Il rompicapo non finisce: si allarga, si inspessisce e ricomincia da capo. E Holden lo impara con l’esperienza.

Mindhunter è una delle serie tv crime migliori di questi ultimi dieci anni. David Fincher e Joe Penhall hanno creato un’estetica unica, tendente al nero, geometricamente impeccabile, posizionando i corpi non solo nello spazio ma pure nella scrittura. E così i momenti più intensi, di grande azione, non sono quelli in movimento, da un punto all’altro della mappa narrativa. Sono i dialoghi. Quando le dimensioni si restringono fino a coincidere con le quattro parenti di una cella di prigione o di un ufficio.

Quello che ci viene presentato, e che viene interpretato così magnificamente da Jonathan Groff, è il prototipo di un nuovo tipo di detective televisivo. Più cerebrale, come il Rust di Matthew McConaughey, e allo stesso tempo diverso, più sottile, nervoso, tra il pionierismo teorico e la pratica. Ciò che colpisce di Mindhunter è soprattutto l’incredibile realismo delle interviste che vengono fatte ai serial killer (molti ispirati o addirittura ricostruiti interamente su veri serial killer).

C’è una tensione palpabile e costante. Che passa da un personaggio all’altro (insieme all’Holden Ford, c’è anche il Bill Trench di Holt McCallany: magnifico), che scivola oltre lo schermo e arriva fino allo spettatore. Non è una vera e propria rivoluzione del genere, questa. Eppure è innegabile il livello qualitativo che Fincher e Penhall sono riusciti a raggiungere. È una rilettura, Mindhunter. Ecco che cos’è. Ed è una rilettura intelligente di una cosa che già altri, in altri tempi, hanno fatto. Ma, in un certo senso, migliore.

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23 Marzo 2024

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