Teona Strugar Mitevska – già autrice del notevolissimo Dio è donna e si chiama Petrunya – lascia deflagrare le emozioni represse e coreografa l’apparente caos con sapienti movimenti di macchina e situazioni in cui i corpi degli attori interagiscono nel suo nuovo film L’appuntamento scritto con Elma Tataragic e prodotto da sua sorella Labina, anche attrice, come in tutti i suoi lavori.
Il film, presentato alla Mostra di Venezia, esce ora in sala con Teodora dal 6 aprile. La 49enne Mitevska, macedone di Skopje, con studi di arte e cinema negli States, è stata insignita del Premio LUX dal Parlamento Europeo. Cinecittà News l’ha incontrata a Roma.
Nel film ci sono attori professionisti e non professionisti chiusi in una situazione claustrofobica, un albergo dove coppie di sconosciuti si ritrovano per uno speed date per poi finire per dover affrontare il trauma del conflitto nella ex Jugoslavia trent’anni dopo. Volevo chiederle come ha scelto gli interpreti, se sono legati all’esperienza della guerra?
Nel film ci sono 17 professionisti (sono tutti i ruoli con i dialoghi) e 24 non professionisti per un totale di 40 persone chiuse nella stessa stanza. Lo definirei senz’altro un film di attori. Avevo lavorato in precedenza con non professionisti ed è stato frustrante perché ci sono dei limiti oltre i quali non ti puoi spingere. Quindi ho insistito molto per avere attori professionisti in tutti i ruoli principali. Nella recitazione io ricerco la verità in ogni momento e la verità della storia che viene raccontata. Detto questo, voglio sottolineare che tutti gli attori sono di Sarajevo o vengono dalla Bosnia e quindi hanno vissuto la guerra in prima persona e hanno parlato attraverso la propria esperienza personale. Durante le prove abbiamo condiviso molte storie che poi spesso sono entrate nel film, specie per i personaggi di contorno.
Giustamente lei parla di ricerca della verità, ma il suo non è un cinema realista piuttosto è un cinema di costruzione. In questo caso c’è tantissima coreografia e a volte il rapporto tra i corpi sembra orchestrato proprio come una danza.
E’ molto bello quello che dice. Avere quaranta persone in una stanza, per poter fare qualcosa di bello, oltre che di vero, richiede una messinscena molto precisa, anche nel movimento. Abbiamo fatto tante prove con la consapevolezza che l’entropia e il caos dovevano essere organizzati. I quaranta corpi dovevano diventare un corpo solo.
Ci sono precedenti illustri al cinema e in letteratura nell’affrontare il tema del rapporto tra vittima e carnefice, un rapporto sempre molto profondo e anche ambiguo, come lei mostra. Per fare un solo esempio, mi viene in mente Il portiere di notte di Liliana Cavani. Lei come ha lavorato su questo aspetto?
Bisogna dire che questa è una storia vera e che abbiamo attinto a piene mani all’esperienza personale di Elma, la sceneggiatrice, per capire come lei si è rapportata a quest’uomo e per entrare nella sua lotta interiore. La guerra li aveva messi dai lati opposti della barricata, il dilemma che vivono io lo capisco benissimo, perché ora che la guerra è finita da trent’anni, spesso abbiamo nostalgia di ciò che era la ex Jugoslavia e notiamo più quello che ci unisce che quello che ci divide. Perciò era una storia da raccontare proprio in questo momento.
In questo momento stiamo vivendo in Europa un’altra guerra, con l’invasione russa dell’Ucraina. C’è stato in voi il desiderio di lanciare un messaggio pacifista anche rispetto a questo conflitto?
No, perché abbiamo girato prima dell’invasione che è cominciata mentre eravamo già al montaggio. Quando cercavamo i finanziamenti, in molti ci chiedevano perché volessimo fare questo film: a chi importa della Bosnia? E noi rispondevamo che la Bosnia è nel cuore dell’Europa, c’è un’eredità forte. Poi è scoppiata la guerra in Ucraina e allora, purtroppo, tutto questo è diventato ancora più attuale.
Un aspetto molto interessante del film è il personaggio femminile e il suo modo di rapportarsi alla violenza, come lei reagisce ma anche come riesce ad andare verso la riconciliazione e il perdono.
Questa, come ho detto più volte, è la storia di Elma e abbiamo cercato di restituirla con estrema fedeltà. È vero che la protagonista diventa violenta, in particolare nella scena del processo, quando perde il controllo, però rimane, non se ne va. Quando comincia a capire che l’uomo che ha incontrato è colui che le ha sparato, è curiosa di ascoltare, di capire. Questo è un tratto tipicamente femminile. Non cerca di ucciderlo, non lo picchia, certo lo sottopone a un processo, ma è ben diverso. Credo che se fosse dipeso da noi donne, non avremmo avuto la guerra nei Balcani o almeno non quel tipo di guerra. Con Elma ci siamo guardate attorno e abbiamo mostrato quello che vedevamo a Sarajevo. A una proiezione a Belgrado, una donna mi ha detto: sono stufa di vedere al cinema film dove i serbi sono responsabili di tutto. Ma io le ho risposto: nell’assedio di Sarajevo non c’erano tedeschi o italiani ma serbi bosniaci. E così posso dire anche che non erano le donne che sparavano alla gente per strada o che stupravano.
Metti piede a Berlino e ti scopri a pensare che qui la storia ha lasciato profonde cicatrici sul volto della città. Ferite rimarginate eppure che non smettono mai di evocare....
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