Tarantiniani e fieri: quando l’Italia era la patria dei generi

E’ stato presentato questa mattina al Maxxi, nel contesto del Festival Internazionale del Film di Roma, il documentario realizzato da Steve Della Casa e Maurizio Tedesco, con Manlio Gomarasca


E’ stato presentato questa mattina al Maxxi, nel contesto del Festival Internazionale del Film di Roma, il documentario realizzato da Steve Della Casa e Maurizio Tedesco, in collaborazione con Manlio Gomarasca, I Tarantiniani, sentito e divertente omaggio ai registi del cinema italiano di genere che, inizialmente ingiustamente vituperati dalla critica, ispirano oggi autori statunitensi di successo come appunto Quentin Tarantino e il suo amico Eli Roth, attore e regista presente al festival con il suo nuovo film The Green Inferno (sorta di remake del Cannibal Holcaust di Deodato), che ha anche partecipato vivamente all’incontro.

C’erano anche altri protagonisti del cinema di quel periodo, tra cui gli attori Barbara Bouchet e Franco Nero, i registi Enzo G. Castellari, Claudio Fragasso e Sergio Martino, a cui si sono aggiunte le nuove leve Cosimo Alemà (a Roma con La Santa) e Rossella De Venuto (autrice del thrilling Controra) che hanno animato una vispa tavola rotonda. Il direttore del festival Marco Mueller, in apertura, ho ribadito, in tempi in cui si parla di crisi delle sale, quanto la mancanza di questo tipo di cinema sia oggi sentita. “Mi piace moltissimo rivedere quei film – racconta Steve Della Casa – ma soprattutto ascoltare i racconti di questi personaggi, che con grande ironia sono però in grado di dire cose profonde e di contenuto. Mi sono reso conto che molti colleghi quando Tarantino cita titoli di nostri film che gli piacciono e a cui si ispira restano in imbarazzo, perché non li conoscono e non sanno che pesci pigliare. Questo documentario vuole fungere anche da piccolo prontuario per loro”. E parte naturalmente il ricordo di Luciano Martino, grande produttore, fratello di Sergio, da poco scomparso.

 “Il titolo era importante – dice Gomarasca – non tanto per omaggiare Quentin ma per far sottolineare l’ipocrisia che vige nel nostro paese. Ci vuole sempre uno straniero che ci dica che siamo bravi. La stampa massacrava questi film e ora li riscopre, ma a scoppio ritardato”.

Eli Roth, entusiasta di trovarsi davanti a quelli che considera i suoi maestri,domina la mattinata, giocando spesso con il cellulare su cui conserva le colonne sonore dei loro film: “Io di film ne ho fatti quattro, dice, e loro ne facevano dieci l’anno. Mi sento davvero come uno studentello. Credo che non gli sia stato davvero riconosciuto ciò che meritavano, e questo principalmente perché, per ragioni di mercato, quando i loro film sono arrivati in America, a metà del anni ’80, con l’esplosione dell’home-video, erano spacciati per film americani. Doppiati, rititolati e loro stessi erano costretti a utilizzare pseudonimi stranieri. Questo purtroppo ha fatto perdere l’identità italiana di quei film. Se ci pensate, nessuno avrebbe rititolato o spacciato per statunitense un film francese degli anni ’70. E probabilmente per questo non li guardavamo, perché pensavamo che fossero noiosi. E’ importante poter girare un film senza fingere di dovere essere qualcun altro. Lo stile, la sensibilità e anche la ‘violenza’ di questi film sono tipicamente italiani. Mi sono sempre accorto che c’era qualcosa di diverso ma l’ho realizzato solo attorno ai 18 anni, alla scuola di cinema quando ho conosciuto degli studenti che erano pazzi per Fulci e Argento. E poi c’era una tipa molto carina, una certa Federica, con cui parlavo stesso. Anni dopo sono andato a pranzo con Sergio Martino e quando è arrivata sua figlia, ho realizzato che era la mia compagna di scuola. Si diventa famosi quando si è conosciuti per qualcosa di specifico, ma io credo che un vero maestro debba saper fare tutto e i vostri registi sono assolutamente in grado, e hanno fatto cose molto più valide di quanto spesso non si faccia in America, perché lì i registi sono pigri, si siedono dietro la sedia, col caffè, e dicono ‘fai questo, fai quello’. Io nella giungla per The Green Inferno ci sono voluto andare per davvero, come Lenzi in Cannibal Ferox o Deodato per Cannibal Holocaust o Martino per La montagna del dio cannibale. Lo capivi che le montagne le hanno scalate sul serio, si sono messi in pericolo per la loro passione”. 

15 Novembre 2013

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