Romano Reggiani: “Avati mi ha insegnato che bisogna rompere gli schemi”

Tra gli interpreti de 'L'orto americano', presentato a Venezia 81, l'attore, 30 anni, aveva lavorato con il regista bolognese già in 'Dante'. Anche musicista, è in tour con uno spettacolo di teatro canzone su Bob Dylan e gli anni Sessanta


Romano Reggiani, 30 anni, nato e cresciuto a Bologna ha studiato e si è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Poi è tornato nella sua città natale, un luogo che ama e dove gli piace trascorrere la sua vita. il suo debutto nel cinema è stato con Marco Pontecorvo nella commedia Tempo instabile con probabili schiarite, dove ha recitato al fianco di Luca Zingaretti, Lillo Petrolo e John Turturro. Ha lavorato anche in progetti internazionali come Lamborghini, biopic di Bobby Moresco nel quale ha dato il volto al giovane Ferruccio Lamborghini, e The Paradox Effect con Harvey Keitel.

All’ultima Mostra del cinema di Venezia è stato tra gli interpreti del film di chiusura dell’81esima edizione, L’orto americano di Pupi Avati, nei panni di un pubblico ministero in un processo a un uomo accusato di aver ucciso e mutilato delle donne. Con il regista bolognese aveva già lavorato in Dante, dove interpretava Guido Cavalcanti. «A 85 anni è un autore che mi ha insegnato a infrangere le regole e rompere gli schemi», ci dice. In attesa di risposte a nuovi progetti, anche musicista, l’attore sta portando in giro uno spettacolo di teatro canzone su Bob Dylan e gli anni Sessanta, con traduzioni di testi e poesie. 

Romano, è la seconda volta che vieni diretto da Avati, un uomo che ancora insegue il sogno del cinema con grande determinazione e passione. Che cosa ti ha insegnato lavorare con questo autore?

Pupi non è vecchio, è come un diciottenne che deve fare ogni volta il suo primo corto di diploma. La meraviglia del suo cinema è questa. Ha sempre odiato il concetto che le cose vanno fatte in un certo modo, come dice qualcuno. Lui fa film pazzi, anche contro quello che si dovrebbe dire e fare. A me piace il cinema artigiano che lascia un’impronta indelebile, da Ermanno Olmi ai fratelli Taviani. Avati è come Bob Dylan, rompe le regole del mestiere e da un uomo di 85 anni non te lo aspetti.

Invece, com’è nata la tua passione per Dylan?

I miei genitori mi hanno fatto sentire delle sue canzoni. Dylan non è solo musica, ma molto di più. Ha raggiunto una completezza attoriale per come si pone. Ha introdotto la fisarmonica nella musica pop. È stato il primo autore a inserire una struttura di sonetti shakespeariani che parlano di politica. È un artista davvero influente. Quando posso, vado a vederlo anche dal vivo.

Come ti sei avvicinato alla recitazione?

Da piccolo ho iniziato a fare teatro in parrocchia come tanti bambini. C’è stata una persona, che oggi non c’è più e mi piace ricordare, Paolo Bertuzzi, che mi ha insegnato che un ragazzino può esprimersi non solo attraverso lo sport, ma anche attraverso l’arte, come il teatro. Ho capito che mi piaceva molto recitare e che ero portato.

E così hai proseguito su questa strada…

Ogni anno, dalla terza media alla quinta superiore, ho realizzato con degli amici un cortometraggio. Piccoli film amatoriali naturalmente, ma che ci hanno portato in giro per molti festival. A 17 anni avevo già le idee chiare sul mio futuro. Volevo fare sul regista, un sogno che inseguo ancora oggi. Finite le superiori, sono entrato al Csc e diplomato in quattro anni.

Che cosa ti piace del tuo lavoro?

È un mestiere davvero affascinante e io mi ritengo molto fortunato a farlo. Posso giocare con i dialetti e interpretare esseri umani sempre diversi.

Qual è stato il primo ruolo importante per te?

Il personaggio di Gabriele, figlio di Luca Zingaretti nella commedia Tempo instabile con probabili schiarite diretta da Marco Pontecorvo. Poi ho fatto molte serie tv. La prima di un certo peso è stata Una grande famiglia di Rai 1, di cui sono entrato a far parte nella terza stagione con la regia di Riccardo Donna. Con l’arrivo delle piattaforme è un po’ cambiato tutto. Sono intervenuti anche molto i social nel nostro lavoro, ma io preferisco preservarmi dall’uso di questo mezzo e dello stesso telefono. 

Tanti attori della tua generazione usano i social per farsi conoscere e raccontare il loro mestiere. 

Io continuo a difendere il fatto di non essere social. Per me non servono, io spero sempre che conti di più la bravura in ciò che facciamo. Stimo i colleghi che sanno fare anche gli influencer, ma per me sono due cose diverse. Mi è capitato di perdere dei ruoli, dopo esser piaciuto a registi e produttori, per colpa di scelte della rete per motivi commerciali. Ma il risultato è stato che non hanno fatto la scelta migliore. 

In attesa che L’orto americano esca nelle sale, dove ti vedremo?

Ho finito una serie che uscirà prossimamente su Canale 5, dal titolo Alex Bravo, poliziotto a modo suo con Marco Bocci. Io interpretato un personaggio che si inserisce nella storia ed è fondamentale per lo sviluppo della stessa. Ora sono in attesa di avere notizie su due, tre nuovi progetti.

Con quale regista ti piacerebbe lavorare?

Con Luca Ribuoli ci siamo un po’ rincorsi in questi anni. Mi auguro ci sia occasione un giorno di fare un progetto insieme. Anche con Bobby Moresco ci siamo detti di voler lavorare ancora insieme e sono convinto che prima o poi ci sarà questa possibilità. 

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29 Settembre 2024

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