Ambientato in un piccolo paese della Calabria, Labirinti racconta l’adolescenza di Francesco e Mimmo, due amici uniti dalle comuni origini ma con visioni opposte del proprio futuro. L’incontro di Francesco con un libro dal titolo simbolico, “Labirinti”, dà il via a un viaggio onirico che lo porterà a interrogare se stesso e ciò che lo circonda. Un viaggio intimo ma universale, come quello intrapreso dal regista Giulio Donato, classe 1993: cresciuto nei luoghi protagonisti del film, è tornato per il suo esordio alla regia dopo anni di esperienza come assistente, aiuto regista e producer su più di sessanta set cinematografici, accanto a maestri come Abel Ferrara. Alternando una narrazione dal taglio documentaristico, attenta ai rituali e alla quotidianità locale, con passaggi più intimi e visionari, Donato rappresenta un conflitto senza tempo, sospeso tra le radici provinciali e l’aspirazione a una nuova libertà. Una prova applaudita alle scorse Giornate degli Autori, dove il film di Donato è stato mostrato in anteprima. Labirinti, prodotto da Francesco Cimpanelli per Life Cinema, sarà presentato a Roma venerdì 28 marzo, alle ore 21.00 presso il Nuovo Cinema Aquila. La proiezione evento sarà presentata dal direttore artistico del cinema Mimmo Calopresti, moderata da Gaia Siria Meloni – co-direttrice artistica del Free Aquila Festival – e vedrà sul palco il regista e il produttore del film.
Il film segue due traiettorie. Da un lato lo sguardo realista, che racconta una vita lontana dai grandi centri urbani, e dall’altro l’elemento onirico, che sfocia in un realismo magico che guida il protagonista. Raccontami come ha costruito questi due tracciati
Sono partito da un’immagine, un’idea visiva o narrativa, un personaggio che inizia a sognare e scopre qualcosa di scomodo, che poi influenza la sua realtà. Questa idea mi è venuta al liceo e ho continuato a lavorarci negli anni. Inizialmente, volevo ambientare la storia in provincia di Roma, ma mi sono reso conto che la Calabria, dove sono cresciuto, con la sua natura e il suo modo di vivere, offriva un contesto universale e particolarmente ricco di contrasti. Ho voluto usare la natura come metafora: una presenza ingombrante e viva, che trasmette tensione e riflette ostacoli economici, psicologici e sociali. Nel film, la realtà e il sogno non sono due mondi separati, ma si contaminano: il protagonista comunica con il mondo attraverso i sogni, un aspetto che rappresenta il suo conflitto interiore.
Senti che questo film sia stato per te una sorta di “atto psicomagico”, uno strumento di autoanalisi e liberazione?
Assolutamente. Chi realizza un film autoriale unisce ciò che ha vissuto con ciò che ha osservato. Nel mio caso, il progetto nasce da miei ragionamenti, dai miei pensieri e dal mio vissuto, che si intrecciano con ciò che ho visto intorno a me. È stato anche catartico: ho raccontato la storia di un ragazzo che, contro ogni previsione, trova la forza di realizzare ciò che gli altri reputavano impossibile. Ho abbandonato una vita sicura da aiuto regista per seguire la mia opera, realizzata in completa autonomia, nonostante difficoltà e pregiudizi. In sostanza, il film parla della forza interiore di una persona che, nonostante le paure, riesce a fare ciò che desidera.
Nel film, lavori sul ruolo dello spazio e del tempo nella vita di una persona. C’è la ciclicità scandita dalla fiera di paese, che torna ineluttabile, ma anche una scena finale che sembra negare lo spazio naturale esplorato fino a quel momento.
Nel capitolo finale ho voluto lasciare allo spettatore una sensazione ambivalente, in cui la realtà non è bianca o nera: ogni scelta comporta lati positivi e negativi. In sostanza, il finale, pur offrendo una via d’uscita, lascia anche il ritratto di un personaggio segnato dagli eventi della vita, come specchio della complessità della vita.
Parliamo del lavoro sul set. Come è stato il lavoro con gli attori? Quanta libertà hai dato loro nella costruzione dei personaggi?
È stato un lavoro molto organico, sia per la recitazione che per la scrittura. Partivo da una sceneggiatura essenziale, con pochi dialoghi e punti chiave, che servivano come guida per le posizioni dei personaggi e le reazioni alle provocazioni. Ho costruito i personaggi partendo dalle qualità che mi colpivano in Simone e Francesco. Ad esempio, la scena della ‘panda’ è stata provata più volte, inizialmente separatamente, poi insieme, finché non si è creata una chimica autentica. L’approccio era duplice: ciò che accadeva davanti alla cinepresa era reale, e il montaggio successivo integrava quella spontaneità con la struttura narrativa che avevo in mente.
Nel film fai un uso interessante dei VFX per portare in scena i risvolti onirici di questo racconto. Non succede spesso nel cinema d’autore. Hai seguito personalmente lo sviluppo degli effetti visivi che vediamo nel film?
“I VFX mi affascinano da sempre. Seguo l’arte digitale e 3D, sia nel cinema che nei videogiochi, osservando come artisti e render realizzino opere sorprendenti. Già prima di girare, avevo le idee chiare in merito e realizzavo artwork per previsualizzarle. Sul set, ho scelto inquadrature semplici, a cui applicare un layer digitale, evitando tracking troppo complessi. In post-produzione, sono stato fortunato con il laboratorio di via Margutta, dove Matteo Quintili e il suo team di VFX artist hanno curato il progetto. In Italia ci sono talenti eccezionali, ma il budget e i tempi stretti richiedono un approccio rapido e mirato, simile a girare un film in due giorni anziché in due mesi.
Sei affascinato da arte digitale e 3D, ti interesserebbe esplorare il mondo dell’animazione?
Assolutamente sì, mi piacerebbe tantissimo lavorare all’animazione. In Europa, specialmente in Francia e Belgio, il fumetto e l’animazione hanno una lunga tradizione, e vorrei integrare queste passioni nel mio lavoro.
La mia esperienza con storyboard e sceneggiatura per fumetti mi spinge a realizzare cortometraggi o progetti animati, senza farli risultare troppo separati dal resto del mio percorso registico. Certo, esistono pregiudizi riguardo all’animazione digitale, ma credo che fondere le mie competenze possa portare a risultati interessanti.
Hai lavorato al fianco di personalità importanti del cinema internazionale, c’è qualche insegnamento che porti sempre con te quando torni sul set?
Un insegnamento fondamentale mi è stato dato da Tommaso Borgström, direttore della fotografia con cui ho lavorato per il film Padre: siamo pagati per giocare. Bisogna mantenere un approccio semplice e giocoso, nonostante le difficoltà e gli imprevisti.
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