CANNES – Roberto Minervini vince il premio per la Regia con il suo film I dannati nella sezione Un Certain Regard, il secondo concorso del Festival di Cannes, ex aequo con Rungano Nyoni per On Becoming a Guinea Fowl. Il film di Minervini, su un episodio della guerra di Secessione americana, è coprodotto da Rai Cinema e nelle sale italiane con Lucky Red.
“Per alcuni di noi essere a un festival è una questione di sopravvivenza, essere qui dà un senso al nostro lavoro e ci fa esistere”, ha commentato Minervini, sul palco della Debussy. Cinecittà News lo ha intervistato subito dopo la premiazione.
Minervini, si aspettava questo Premio per il suo primo film non strettamente documentaristico?
Non me l’aspettavo perché con il mio cinema cerco sempre di mettere in discussione la sintassi del cinema stesso e quando si lavora a nuovi linguaggi non è così prevedibile un riconoscimento immediato, a caldo. Tra l’altro I dannati è passato come secondo film di Un Certain Regard e che avesse un’eco fino al giorno dell’assegnazione dei premi, sinceramente, non me l’aspettavo.
Cos’è che la giuria ha riconosciuto nel suo film?
Me l’hanno detto i giurati stessi che si sono congratulati. Potrei sintetizzare con le parole del presidente della giuria Xavier Dolan che ha detto: “Io non avevo mai visto un film che raccontasse così tanto per sottrazione e omissione, obbligandoci a concentrarci su quello che ci hai offerto, eppure quello che ci hai offerto racconta tutto quello che dovrebbe essere raccontato su una condizione tragica come quella della guerra”.
Ricevendo il premio ha detto che questo è un film sulla guerra ma non si vedono i nemici. Cosa c’è dietro questa scelta?
Ho detto questo e ho detto anche che non si vedono i nemici perché nel momento in cui si identifica il nemico si identifica la controparte e l’alleato, si gettano le basi per la giustificazione di un atto bellico, per sradicare quello che viene considerato il male. Ma nel mio film vado a ritroso, parto dalle cause della guerra, dall’assurdità e dall’inutilità della guerra. Le ragioni della guerra – lo sappiamo tutti – non hanno nulla a che vedere con l’inevitabilità dello scontro.
Il film si apre con l’immagine di lupi che sbranano una preda, naturalmente è un richiamo all’homo homini lupus, che però viene rimesso in discussione nella narrazione successiva. Come ha riflettuto su questo aspetto?
Certamente, quando giravo quella scena ho pensato che aprire il film con dei lupi che sbranano un animale morto avrebbe scatenato sentimenti forti, la paura, il trauma della morte così tangibile e carnale, ma in effetti la brutalità della guerra deriva dal fatto che l’uomo, a differenza dell’animale, è dotato di coscienza e capacità di analisi critica, immagazzina una memoria collettiva e quindi ridurci allo stato animale, al “dog eat dog” non è assolutamente giustificabile. La parte più brutale del film viene proprio da quella sequenza.
Lei vive e lavora negli Stati Uniti da molto tempo, quanto sente di rappresentare l’Italia in questo momento?
Sono andato via dall’Italia per necessità, per cercare lavoro, non perché avessi voglia di diventare cittadino del mondo. Stavo bene come stavo ma c’era bisogno di guadagnare. Sono di quegli italiani che appartengono a una storia di emigrazione ma si portano il paese d’origine dentro.
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