Quando penso a Point Break, il film scelto questa settimana per #ProfondoThriller, non riesco a capacitarmi ancora oggi, a distanza di oltre 30 anni dalla sua uscita, di come funzioni così bene un’opera che ha una premessa narrativa così insulsa. A tratti quasi parodistica.
Il protagonista dall’improponibile nome di Johnny Utah – interpretato da Keanu Reeves – è un agente da poco entrato nell’FBI, ex stella del football americano con un ginocchio malandato e ora assegnato a Los Angeles. Una serie di rapine in banca sta mettendo in crisi il Bureau. Quattro rapinatori che si fanno chiamare gli Ex-Presidenti perché indossano maschere di gomma di Nixon, Carter, Reagan e Johnson, hanno messo a segno una serie di colpi in banca senza lasciarsi dietro nemmeno un indizio. Tranne uno. Almeno secondo il partner di Johnny: Angelo Pappas (interpretato dal “gommoso” Gary Busey) che ha un’intuizione. Visto che nelle registrazioni uno di loro ha la linea dell’abbronzatura ben visibile e considerando una ciocca di capelli trovata sul luogo del delitto inquinata dagli stessi agenti contaminanti rinvenuti in una famosa spiaggia, gli ExPresidenti sono surfisti! Così Pappas convince Utah ad unirsi al gruppo di “cavalcatori delle onde” per cercare di risolvere il caso.
Un film californiano, in tutto e per tutto, la cui trama potrebbe andar benissimo per una storia grottesca. Tanto che a un certo punto un personaggio è così convinto e furioso da lanciarsi da un aereo senza paracadute, precipitare in caduta libera fino a quando non riesce ad affrontare un altro tizio che ne ha uno. Per poi puntargli una pistola alla testa. Eppure tutto funziona a meraviglia tanto che Point Break oggi ha un suo bel posticino nella storia dei film d’azione americani.
La regista dal talento immenso, ma di cui abbiamo smarrito le tracce da molti anni, Kathryn Bigelow, mostra qui una gestione del ritmo e una forza impressionanti facendo di Point Break il tipo di film in cui non dobbiamo passare molto tempo ad analizzare le motivazioni dei personaggi, ma farci travolgere dal movimento percussivo delle sequenze.
È interessante comunque come gestisce il nodo narrativo principale: i suoi caratteri vivono pericolosamente per ragioni filosofiche, non sono uomini d’azione, ma di pensiero. Semplicemente scelgono l’azione come modo per esprimere le proprie convinzioni. Questo aggiunge un elemento intrigante a Johnny e Bodhi e rende il confronto finale di questo film addirittura credibile, data la natura certamente assurda del materiale. Utah, per esempio, fa delle cose fuori da ogni logica, ma gliele perdoniamo perché fondamentalmente lui (come noi) è intrappolato nell’incantesimo di Bodhi, il surfista leader zen, per cui tutto – la caduta libera, il surf, le rapine in banca – fa parte dell’inseguimento dell’onda della vita in una corsa senza fine.
Fresco del successo planetario di Ghost, Patrick Swayze porta un’innocenza idealista che evita l’auto-parodia al personaggio del filosofo della spiaggia e mentore di Utah, Bhodi. Per fortuna, ogni eccesso è mitigato dal poliziotto stanco del mondo di Gary Busey, Angelo Pappas, uno stereotipo cinematografico roco e vecchio quanto Hollywood, ma sempre efficace.
La spiritualità accennata del film è palesemente superficiale, ma viene rapidamente inghiottita dalla risacca della spettacolarità. La scena principale vede Johnny inseguire un cattivo mascherato da Reagan sopra i cofani delle auto, nei cortili, nei vicoli e perfino attraverso i salotti di Santa Monica. E poi due sequenze di paracadutismo con una fotografia virtuosa, una potente chimica tra i personaggi buoni e cattivi e una colonna sonora minacciosa e cupa di Mark Isham che sottolinea l’atmosfera.
Il tutto è miracolosamente bello e avvincente. Un film che puoi vedere tante volte e in ogni occasione l’attenzione non cala mai.
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