Piero Messina: “Another End, l’amore oltre la morte”

Nel film, in concorso a Berlino e in sala dal 21 marzo da 01 Distribution, un cast internazionale con Gael Garcia Bernal, Bérénice Bejo e Renate Reinsve. "Avevo bisogno di attori che portassero in scena qualcosa di straordinario", dice il regista Piero Messina


BERLINO – Se è vero che il cinema è la morte al lavoro, il film di Piero Messina, Another End, esplora le possibilità insite nella sua rappresentazione tra desiderio di riprendere un dialogo interrotto e tripli salti mortali che riportano alla memoria film come The Others o Il sesto senso. Nell’opera seconda del regista di Caltagirone si parla di lutto e di separazione, come nell’esordio L’attesa, che portò alla Mostra di Venezia. Ma anche molto di amore. “Per me, prima che un film di fantascienza, Another End è un storia d’amore. Sull’amore che vive nelle parole, tra i pensieri, nei ricordi, ma che soprattutto vive e cresce nel silenzio nei corpi. Di nascosto. Come un segreto del corpo”, ha dichiarato il regista, primo dei due italiani a scendere in concorso alla 74ma edizione del Festival di Berlino. Per il protagonista, il messicano Gael Garcia Bernal, è “un lavoro profondo e sommamente romantico come ce ne sono pochi”.

Nel film, prodotto da Indigo con Rai Cinema e distribuito dal 21 marzo da 01 Distribution, viene descritto un futuro non troppo lontano e non troppo distopico in cui è possibile trasferire la memoria di un defunto dentro il corpo di un donatore volontario. Un modo per accomiatarsi e magari sciogliere nodi pesanti dopo una morte improvvisa, una sorta di psicoterapia d’urto. Il protagonista Sal (Gael Garcia Bernal) lo incontriamo mentre fa visita a una vicina di casa che ha appena perso il marito e che rimane stranamente indifferente quando gli impiegati portano via il corpo del coniuge continuando a bere il suo tè con i biscotti. Ben presto capiamo che in questa società grigia, ordinata e ipertecnologica il rapporto con la morte è totalmente cambiato, da un lato si è razionalizzato come mostrano le lunghe file di corpi imbustati dentro contenitori bianchi, dall’altro si è complicato, rimanendo inciso anche nella pelle dei vivi. Lo stesso Sal, che ha un rapporto molto stretto con la sorella Ebe (Bérénice Bejo

), ha da poco perduto l’amata compagna Zoe, perita in un incidente d’auto di cui lui si sente responsabile. Disperato, lascia affiorare ricordi e frammenti di esistenza fino alla sofferta decisione di ricorrere alla tecnologia per ritrovare almeno un simulacro di Zoe. Ma ora è il giovane corpo che ospita la coscienza della sua donna (Renate Reinsve) ad attrarlo, mentre scorrono le varie fasi del distacco, dalla rabbia alla tenerezza. Di più non si può dire per non manomettere il meccanismo della rivelazione che sostanzia il film. E addirittura Bérénice Bejo evita di parlare del suo personaggio.

Da cosa è partito per scrivere questa storia?

Da un’immagine che è l’immagine fondativa del film e che mi ossessionava, due corpi che nel silenzio del risveglio si guardano. Nel peso di quella immobilità c’era qualcosa di interessante da dire sull’amore.

Considera “Another End” un film di fantascienza?

Quando scrivevamo con Giacomo Bendotti, Valentina Gaddi e Sebastiano Melloni ci siamo ripromessi di contrastare il potenziale della fantascienza. Sentivo di tradire le mie vere intenzioni creando un mondo distopico. Però sapevo cosa poteva esistere e cosa no, quali arredi, quale città, quale luce, via via eliminavo gli elementi stonati e questo ha finito per creare in effetti un mondo.

Anche “L’attesa”, il suo primo film, parla di distacco da una persona amata.

La differenza è che lì i personaggi restano passivi aspettando che il pensiero magico realizzi qualcosa, mentre qui agiscano anche se in maniera maldestra e disperata. Mi sono chiesto io stesso perché di nuovo parlassi di separazione. Credo che sia perché nell’assenza vivo più intensamente ciò che ho già vissuto. E’ un momento fertile per parlare dell’amore. Imparare a lasciare andare le cose è molto importante, difficile ma fondamentale per crescere.

Perché un cast internazionale? Non si poteva fare con attori italiani?

Con il produttore, Nicola Giuliano, ci siamo detti che visto che il film non era ambientato in un luogo realistico, potevamo spingerci con l’immaginazione. Per contrastare l’aspetto di genere e la sua freddezza, avevo bisogno di attori straordinari che portassero in scena qualcosa di sorprendente e di asimmetrico, qualcosa di vivo. Con loro tre e con Olivia Williams, che ha il ruolo di una madre, era come se il vento avesse aperto la finestra all’improvviso e buttato giù tutte le cose. Naturalmente avrebbe potuto funzionare anche con attori italiani. Ma come quando scrivevo L’attesa avevo in mente fin da subito Juliette Binoche, anche quando non immaginavo neppure che potesse accettare, qui mi era venuto subito il volto di Gael.

Il film pone un interessante interrogativo: cosa amiamo quando amiamo?

I pensieri, le parole, il corpo, la presenza fisica, lo stare insieme? Tutto ciò è determinante nella relazione e racconta anche qualcosa di spirituale.

Cosa direbbe ai giovani che si apprestano a fare questo lavoro?

Non mi sento di dare indicazioni, io stesso in fondo ho girato solo qualche cortometraggio e due lungometraggi. Posso solo dire di fare, perché si impara girando. Poi, se scrivi una bella sceneggiatura, puoi coinvolgere anche grandi talenti.

 

 

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