Paolo Virzì: il mio noir ironico e amaro

“Un mosaico di storie di ricchezza e miseria che racconta molto dell’Italia di oggi”. Così il regista definisce il suo nuovo film, 'Il capitale umano', presentato alle Giornate Professionali


SORRENTO. “Un mosaico di storie di ricchezza e miseria che racconta molto dell’Italia di oggi”. Così il regista Paolo Virzì definisce il suo nuovo film, Il capitale umano, presentato in anteprima alle Giornate Professionali e dal 9 gennaio nelle sale. Un noir sulla ferocia di un sistema sociale che ha spregiudicatezza e ipocrisia come valori-base, popolato da padri attenti solo ai propri interessi, non solo economici, e figli accartocciati su se stessi.
“Mi interessava indagare i conflitti generazionali, con padri egocentrici e immaturi (la coppia Fabrizio Gifuni e Fabrizio Bentivoglio, ndr) che la fanno pagare a giovani pieni di energia. Gli stessi che spero abbiano la forza di voltare pagina in questo Paese”.

E’ anche un film sulla crisi?
Sì, è un tema indagato nel panorama attuale del ricco Nord. Esplode la crisi, e la vediamo attraverso gli occhi di un immobiliarista e una ricca famiglia di investitori in borsa, e dei loro figli.

Sceglie di girare un noir nell’era della commedia e del fenomeno Checco Zalone. Come mai?
Intanto è un noir che non rinuncia a un’ironia amara e feroce. Poi su Zalone non sono catastrofico: è un comico popolare che fa molto ridere, mi divertono meno Boldi e De Sica. Il problema non è tanto la qualità di un film, ma un sistema poco sano. Se ti avventuri nella provincia italiana, ma anche a Perugia o Cremona, scopri che le sale cinematografiche in centro non ci sono più: un certo tipo di pubblico è stato costretto a rimanere a casa. A Roma ha chiuso il Metropolitan, che oltre tutto incassava discretamente. Bisogna riflettere molto su questo.

Fotografare un momento storico per raccontare le “storie” all’interno della Storia. Nei suoi ultimi film, con toni e secondo generi diversi, sembra non voler fare altro.

Mi appassionano i temi sociali ed esistenziali, mi piace che siano impregnati gli uni degli altri. La tragedia da sola mi pare pesante, il comico da solo stupido, le due cose insieme mi pare creino invece una chimica che funziona. Sarà che sono cresciuto leggendo Dickens, che faceva ridere e piangere, e da lettore ho assorbito uno sguardo che mi somiglia anche nella vita.

Tra i giovani registi individua suoi eredi?
Difficile dirlo. Ci sono giovani che ammiro, come Alice Rohrwacher, intensa e spiritosissima. O Roan Johnson, con il suo I primi della lista. Molto bello anche Smetto quando voglio di Sydney Sibilia, che mi è capitato di vedere.

Intanto a Torino ha sperimentato la direzione artistica del festival: com’è andata?

Mi sono divertito a stare in mezzo alla gente. Ho perso la voce, mi sono stancato, ma ero curioso di mettere il naso in un festival che seguivo con passione da spettatore e non ho perso occasione di festeggiare con gli spettatori.

Cos’è il cinema per lei?
Cito Mazzacurati: un modo per rimediare alla bruttezza della vita. I film possono essere una medicina per renderla più accettabile.

C’è un film o un personaggio dei suoi a cui è rimasto particolarmente affezionato?
Ho dei file nei computer densi di appunti di possibili epiloghi di personaggi che ho già raccontato al cinema, per fortuna ogni volta mi trattengo dallo svilupparli per non scadere nella civetteria autocelebrativa.

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04 Dicembre 2013

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