TORINO – Libertà, mescolanza, sperimentazione: sono queste le parole chiave che hanno guidato l’attività del grande musicista Paolo Fresu come ideatore e direttore del festival Time in Jazz per oltre 35 anni. L’avventura di un festival creato nella sua città natale, Berchidda, un paese di meno di 3.000 anime sperduto nella campagna sarda, viene ripercorsa nel film Berchidda Live. Un viaggio nell’archivio Time in Jazz, documentario che presentato in anteprima nella sezione Ritratti e paesaggi del 41° Torino Film Festival e nelle sale dal 15 aprile 2024. Alla regia troviamo Gianfranco Cabiddu, principale artefice della creazione dell’archivio Time in Jazz, e da Michele Mellara e Alessandro Rossi, che hanno prestato il loro sguardo vergine e la loro esperienza alla causa.
Berchidda Live è un film concerto in cui si ha l’opportunità di rivivere alcune delle più significative performance musicali e non solo che hanno fatto la storia del festival, alternate alle testimonianze dei protagonisti, su tutti quella di Paolo Fresu, che di questo progetto è, chiaramente, il principale protagonista.
Paolo Fresu, quali sono state le emozioni di ripercorrere 35 anni di un festival così unico?
Sono molte, perché io ho davanti agli occhi tutto quello che è accaduto in questi 35 anni, che nel frattempo in realtà sono diventati 36, perché ho vissuto in maniera non solo intensa, ma puntuale, tutto quello che è accaduto, dato che io uso presentare tutti i concerti. Se ci sono 50 concerti io dico buongiorno, introduco i musicisti eccetera. Tutto quello che nel film io l’ho vissuto in prima persona, l’ho ascoltato con le orecchie e l’ho visto con gli occhi. Ho rivisto anche persone che purtroppo non ci sono più. Mancano in realtà i primissimi anni del festival, perché mancava ancora quella coscienza di potere in qualche modo documentare, c’erano ovviamente tecnologie molto diverse. Un racconto incompleto, ma di pochissimo, mancano solo 5 o 6 anni, ma è stato emozionantissimo: c’è mio padre dentro, c’è una parte del mio matrimonio. È un film che lega le cose private con quelle pubbliche, perché è un festival che è sempre stato molto attento all’aspetto relazionale. C’è una simbiosi osmotica tra gli stessi artisti e le persone del luogo, il rapporto tra il micro e il macro credo sia anche uno dei punti di svolta del successo del festival. E poi c’è la musica, che è molto molto bella, con una qualità sonora sorprendente, nonostante siano concerti registrati magari su due piste. Passi ancora per i concerti sul parco centrale, però ci sono tanti concerti in luoghi immersi nel nulla, che era difficile registrare e che invece sono di ottima qualità.
La mole di materiale scandagliata per il film è impressionante. Ha contribuito in qualche modo alla selezione delle clip, ha dato qualche suggerimento o indicazione ai registi?
Io non ho contribuito in nulla perché il materiale era davvero tanto ed è un festival molto difficile da raccontare. Penso si percepisca nel documentario. Non è il classico festival che ha un palco centrale o più palchi, è un festival che si svolge dappertutto, nei luoghi più impensabili, concerti di mattina, di pomeriggio, all’alba, al tramonto, di notte, presentazioni di libri, bambini, la parte cinematografica. Queste 1.500 ore che sono approdate a Bologna erano davvero difficili da sbobinare per scegliere il materiale, ho pensato che l’errore più grande che io potessi fare era dare delle indicazioni, perché era un film che doveva fare qualcuno che il festival quasi non lo conosceva, proprio per coglierne degli aspetti che noi che siamo affezionati ad alcuni concerti magari non cogliamo. I piani di lettura possono essere molti. Io addirittura ho visto il film quando era montato al 95%, sapendo però che Gianfranco Cabiddu, che il festival l’ha vissuto quasi dall’inizio, aveva la possibilità di leggerlo nella maniera che era un po’ la nostra. Mentre gli altri due registi bolognesi non conoscevano il festival e si sono trovati davanti tutto questo materiale. Non ho voluto suggerire niente perché volevo che ci fosse libertà totale da parte dei registi di rileggerlo e raccontarlo a loro modo.
Qual è il legame tra il jazz e la Sardegna? Tra la musica pastorale sarda e quella afro-americana?
Quando è partito questo festival io ero molto giovane, avevo circa 26 anni e tutti mi guardavano in modo strano. Si chiedevano cosa c’entra il jazz con Berchidda, con la tradizione sarda. In realtà c’erano già un paio di festival che si gestivano in territorio sardo. Me lo hanno fatto passare sostanzialmente perché ero io, perché ero già un musicista di jazz. Molti si chiedevano quale potesse essere il legame tra una cultura millenaria di natura rurale con un linguaggio che, soprattutto negli anni ‘80, veniva dalle metropoli americane. È una domanda che anche io mi sono fatto, per questo ho cercato di fare un festival che fosse legato al territorio che si guardasse intorno delle radici. Queste radici le ho trovate nel momento in cui, tornando indietro nel tempo, mi sono reso che conto che il jazz in realtà nasceva come musica popolare. Ai primi anni ’20 del secolo scorso, non era una musica intellettuale o che aveva una valenza che alcuni pensano abbia oggi. È nato realmente tra le strade, le piazze e i luoghi di ritrovo del popolo e questa valenza così popolare è la stessa che poi ritroviamo nella musica tradizionale dell’isola, che è una musica che si consuma nelle strade, nelle piazze, nei bar, nelle sagrestie. Questa dimensione popolare che lega il jazz alla musica sarda è l’elemento che in qualche modo unisce questi due mondi, apparentemente molto distanti, ma che hanno molte similarità. Abbiamo iniziato a fare dei progetti che coinvolgessero la musica dell’isola per poi uscire e andare in giro per il mondo, portare musicisti dall’Africa, dall’Asia dell’Est Europa eccetera e scoprendo quanto la musica popolare, la musica etnica, sia capace di stare vicino al jazz più di tanti altri linguaggi.
Un testimone, all’interno del documentario, rimane stupito dal fatto che in centinaia di persone siano andate in una chiesa sperduta per partecipare a un concerto: qual è stata la chiave comunicativa per coinvolgere il pubblico locale?
Non c’è stata una chiave comunicativa precisa, o meglio se c’è stata non è stata voluta. Il primo concerto in una chiesa è avvenuto perché avevano da poco restaurato una chiesetta di campagna, e abbiamo deciso di portarci un concerto. È stata una cosa indimenticabile, non pensavamo che potesse avere quella forza. Questo in qualche modo ci ha suggerito di andare avanti. Poi il pubblico diventava sempre di più, nelle chiese non ci stava, e siamo andati fuori e nella natura. Ciò ha a che fare con un forte legame di natura antropologica, in quanto le chiese di campagna sono fortemente vissute dalla comunità, luoghi d’incontro. Non abbiamo fatto nient’altro che animare con la musica luoghi che erano già fortemente sentiti e permettere a persone di scoprire il jazz, che magari non avevano mai sentito prima. Quando la musica permea una comunità tutti ne riconoscono la valenza, ma in qualche modo sono disposti a collaborare in modo che tutto ciò possa crescere ed evolversi. Si assiste sempre allo spopolamento, al fatto che le persone partono dai paesi per andare nei luoghi più grandi. Una manifestazione come questa, respirata in questo modo, sentita in questo modo ci aiuta a riflettere sul ruolo dei borghi e dei piccoli paesi. Credo che se questo festival non fosse stato fatto a Berchidda, non avrebbe avuto quell’identità quella forza e quel radicamento nel territorio e, probabilmente, nemmeno lo stesso successo. Lo stesso festival fatto in un’altra città probabilmente avrebbe avuto un senso completamente diverso.
Qual è la prossima tappa del festival?
Le tappe sono sempre molte, noi non abbiamo mai camminato troppo velocemente. Abbiamo sempre piantato dei semi e abbiamo provato a innaffiarli con passione, non tutto ovviamente hanno attecchito. In questi 36 anni abbiamo sempre provato a fare cose nuove, abbiamo provato a indagare in altri luoghi e in altri linguaggi e poi, piano piano, le cose che hanno funzionato che le siamo portate appresso. Vorremo continuare in questa direzione, ovviamente dialogando con il presente, che è molto diverso da quello del 1988. Probabilmente oggi è ancora più difficile. L’idea è quella di guardare in avanti e sperare che ci sia una politica culturale che dia valore, che dia peso a manifestazioni come la nostra, perché fortunatamente ce ne sono tante, che però vivono nella difficoltà di una precarietà totale. Da una parte la visionarietà e il bisogno di continuare, e dall’altra il provare a depositare un minimo di sicurezza che ti permetta di programmare con largo anticipo e lavorare con la serietà che un festival come il nostro richiede.
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