Paolo e Vittorio Taviani: “Bruto? E’ un indignato”


BERLINO – Grande accoglienza, al Festival di Berlino, per i fratelli Taviani. L’ultima volta, nel 2006, erano stati qui con un film epico sul genocidio armeno (La masseria delle allodole), adesso portano in concorso Cesare deve morire, affrontando la sfida nonostante l’età e i premi vinti, dalla Palma d’oro per Padre padrone (1977) al Leone alla carriera (1986). Lo fanno da pari loro, con la semplicità e la freschezza di un film che fa pienamente sua la tragedia scespiriana del tirannicidio attraverso le esperienze di straordinari attori, reclusi nel carcere di Rebibbia nella sezione di massima sicurezza riservata a camorristi e mafiosi. Ciascuno nel suo dialetto e con la sua storia vera a fior di pelle, questi uomini a volte condannati a fine pena mai vengono filmati durante il percorso che porta a mettere in scena il Giulio Cesare dietro le sbarre con la regia di Fabio Cavalli, regista che da molti anni ha creato, proprio a Rebibbia, una compagnia teatrale. Il testo, anche grazie a Salvatore Striano che interpreta questo personaggio, diventa la tragedia di Bruto, il tirannicida, l’uomo che ama Cesare ma di più ama Roma e la libertà. Tanto da dare la pugnalata mortale a colui che lo considera come un figlio, insieme agli altri congiurati. Prima manipolato dalla bramosia di Cassio, quindi ingannato dalla retorica di Antonio e perduto nella battaglia di Filippi. C’è da sperare che Cesare deve morire, che in Italia uscirà il 2 marzo con Sacher, non torni a casa a mani vuote da questo festival. Intanto stasera grande festa del cinema italiano per i due registi.

 

Di Shakespeare avete detto che vi siete sentiti, in epoche diverse della vostra vita, figli, fratelli e padri.
Paolo: All’inizio per noi Shakespeare è stato un mito, abbiamo amato i suoi testi e cercato di rincorrerne la grandezza. Nella maturità ci è sembrato irraggiungibile e ci siamo sentiti più piccoli di quando siamo partiti. Da vecchi ci siamo permessi di trattarlo un po’ male, l’abbiamo smembrato, decostruito e ricostruito. Ma forse avrebbe amato essere rappresentato in un carcere, una cosa mai accaduta prima con “Giulio Cesare”.

 

Perché proprio il carcere?

Vittorio: Per caso. Un’amica ci ha detto: a Roma c’è un teatro dove si piange. Questo teatro era a Rebibbia dove detenuti di mafia, camorra e ‘ndrangheta recitavano l’Inferno di Dante dal loro inferno personale, identificandosi con i personaggi danteschi. Andammo a vederli e ci colpì sentire che la vicenda di Paolo e Francesca riviveva attraverso i loro amori impossibili. Tutti sappiamo cosa è il carcere, ma abbiamo in mente soprattutto quello dei film americani. Lavorando con loro si crea un rapporto di tale affetto da non pensare più ai delitti: è qualcosa che anche le guardie provano. E poi il “Giulio Cesare” è perfetto, perché parla di uomini d’onore, perché parla di potere, tradimento, assassinio, congiura, di un capo che va ucciso. Abbiamo fatto incontrare il dramma di vivere in carcere col dramma di Bruto. Non credevamo alla nostra età di poter avere un’esperienza così traumatizzante che ci ha rivelato un aspetto dell’umanità da riscattare. 

Avete inserito nel racconto i provini, un momento di grande intensità emotiva, che a tratti fa anche sorridere.

Paolo. Nei provini, come abbiamo sempre fatto per tutti i nostri film, facciamo dire nome, cognome e indirizzo prima con dolore e poi con rabbia. In quel modo è venuto fuori molto della natura di queste persone. La cosa sorprendente è che tutti hanno dato le loro vere generalità. Sapevano che il film l’avrebbero visto in tanti e volevano affermare se stessi. E poi il loro modo di recitare è diverso da quello degli altri attori: nel film hanno trasferito la loro vera sofferenza.

 

Perché la scelta del bianco e nero?
Vittorio. Il colore è oggettività naturalista, noi volevamo rievocare come nasce nelle anime dei detenuti l’anima dei personaggi attraverso qualcosa di irrealistico. Lo spettacolo finale è a colori, i sei mesi che lo precedono sono in bianco e nero. All’inizio avevamo la sensazione di entrare in un mondo dove non avevamo diritto di entrare, poi questo è scomparso e siamo diventati tutti solo persone a cui questa storia apparteneva in maniera uguale. L’umanità è enormemente complessa, si fa presto a giudicare, ma la complessità del destino degli uomini è molto misteriosa.

 

Credete in una funzione terapeutica del teatro?

Paolo. C’è questo aspetto, ma non vorrei ridurre tutto a questo. I detenuti incontrano l’arte e come dice Cosimo Rega, che interpreta Cassio: “Da quando ho incontrato l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Il film, dunque, è anche un racconto della scoperta della potenza dell’arte. Non a caso abbiamo scelto il più grande di tutti gli artisti, Shakespeare. Alcuni sono condannati a fine pena mai, altri hanno condanne minori, altri hanno già scontato, Salvatore Striano è libero e fa l’attore. E’ stato Ariele nella “Tempesta”, ha lavorato con Umberto Orsini e ora fa anche cinema e fiction televisive.

 

Avete pensato anche a una dimensione di denuncia del film?

Paolo. Questo film può attirare l’attenzione sulla tragedia delle carceri, dove ci sono detenuti che si impiccano, dove si vive in tanti in una cella. Speriamo che possa commuovere il fatto che in una prigione sia stato rappresentato il “Giulio Cesare”. Speriamo anche che gli spettatori ci pensino due volte a dare il voto a un Cesare sbagliato.

Vittorio. Il direttore di Rebibbia, Carmelo Cantoni, è molto attento alla sua comunità e crede nel ruolo della cultura. Ma il primo impatto è stato strano per noi: le celle del reparto di alta sicurezza sono occupate da 4 o 5 letti e in mezzo c’è un tavolo con cose da mangiare – un pollo, una cipolla – come in una casa contadina. Sui letti, anche di pomeriggio, ci sono persone sdraiate che guardano il soffitto. In quel braccio c’è una sorta di autoregolamentazione. Anche quando avvengono dei dissidi, non si alza mai la voce, gli sgarri vengono regolati fra di loro e non c’è il terribile caos che c’è nei bracci dei detenuti comuni.

 

Ci sono stati momenti iniziali di diffidenza?

Paolo. C’è stata un’accoglienza fiduciosa, poi abbiamo avuto una discussione quando è stato sostituito un attore… correva del malumore, abbiamo deciso di andarcene e siamo tornati a casa. Dopo qualche giorno ci hanno telefonato per richiamarci e ci hanno accolto con un applauso. Da quel momento non ci sono state più tensioni. È un film strano, girato con grande emozione, con la stessa incosciente spavalderia dei nostri primi film.

 

Come mai la scelta dei dialetti?
Vittorio. Il dialetto loro lo sentono proprio, è il linguaggio che gli appartiene e in cui possono trasmettere le loro emozioni.

 

Bruto ha qualcosa da dire anche a chi vive nel presente: tenere alta l’attenzione su chi si fa tiranno gradualmente, senza darlo troppo a vedere.

Paolo. Bruto è il vero protagonista del “Giulio Cesare”, colui che capisce cos’è la tirannia che sta avanzando, capisce che con dolore deve uccidere Cesare. Anche se sarebbe banale e azzardato fare paralleli forti con l’oggi, spero che chi vede questo film senta dentro di sé la necessità di vivere in un mondo dove non ci siano Cesari da uccidere, dove la libertà non sia conculcata. Questi attori dicono cose che i giovani possono dire tutti i giorni, Bruto è un indignato nel senso migliore. Non voglio certo dire che il “Giulio Cesare” sia un invito a compiere quelle stesse azioni, ma non bisogna addormentarsi perché il mondo non è molto cambiato da allora.

11 Febbraio 2012

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