Il regista francese d’acchito è sinonimo di Se mi lasci ti cancello, il suo film più pop – premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale (2005), ma Michel Gondry vuol dire anche L’arte del sogno (2006), Microbo & Gasolina (2015) o Il libro delle soluzioni, sua ultima opera dietro la macchina da presa, in uscita al cinema dal 1 novembre, che racconta di un suo periodo particolare della vita.
Rispetto proprio a un titolo con cui un autore può essere identificato, Gondry sostiene che “non bisogna rinnegarne i vantaggi: ho potuto girare film successivi grazie al successo di film popolari. Poi, si accettano le difficoltà e si accetta se stessi”.
Tornando a Il libro delle soluzioni, racconta che “il film è girato nel luogo in cui ho davvero trascorso le mie vacanze fin da piccolo, dove è accaduto tutto ciò che si vede nel film: se non è tutto identico, è tutto molto vicino alla realtà. E Marc (Pierre Niney) – il protagonista – è abbastanza vicino a me”, ammette.
E com’è ricaduta la scelta proprio su Niney? “È lui che mi scelto”, afferma il regista, che racconta: “circa 10 anni fa mi ha scelto come padrino ai César ed eravamo rimasti in contatto: ho avuto più bisogno io di lui, che lui di me. Penso non abbia paura di fare un ruolo in cui è una faccia da schiaffi, io stesso sono così: spesso sono un escluso perché non sono cool, e ne sono abbastanza orgoglioso. Lui non ha avuto paura del ruolo e mi son chiesto: ‘perché lo spettatore lo amerà, uno così paranoico, egoistico?’. Grazie allo sguardo delle donne che lavorano con lui: con questo spirito ho diretto le attrici”.
Il libro delle soluzioni è quello che a Marc viene in mente avesse posseduto da bambino, a cui ricorre, e lì conosciamo una prima indicazione: “iniziare un progetto … è come far partire una macchina in inverno“. Sul tema, Gondry dice: “non ho molto riflettuto sulla frase, m’è parsa bella, e comunque, prima che una macchina parta ci vuole sforzo. Con questo avevo scritto quattro simboli: imparare facendo; non ascoltare gli altri; poi ascoltare gli altri per rimette tutto nel contesto. In particolare, su “imparare facendo”, Gondry specifica che: “quando si inizia un progetto ci saranno fasi più complesse, di cui all’inizio non si avrà soluzione. Prima di incontrare però la prima difficoltà si sono apprese cose che ci permetteranno di trovare altre soluzioni e trovando soluzioni si impregna il film di personalità, mettendo se stessi più di quando si racconti una storia in modo naturale. Le soluzioni spesso sono più originali. Mi è capitato di parlare con giovani registi, più preoccupati della loro immagine, del voler essere subito Welles o Kubrick: ma il loro problema, in realtà, doveva essere semmai non riuscire a fare un film” .
La realizzazione di un film, gli viene fatto notare, è come un atto di resistenza e lui afferma che “effettivamente è un atto di difesa, a volte giustificata ma molto spesso no, perché la resistenza vera è quella della troupe. Io, come Marc, consideravo che tutte le idee avessero la stessa importanza: la troupe, poiché dovevamo finire il film, agiva con efficacia, per cui la resistenza era soprattutto loro”.
Un film comporta una realizzazione, sul set, spesso più ampia di quello che poi si finalizza per il grande schermo, ma quanto è doloroso per un autore dover rinunciare, al montaggio, a certe sequenze girate? “Durante il montaggio avevo esplorato molte direzioni, in modo un po’ disordinato, ma Il libro delle soluzioni vuole proprio mostrare la frammentazione, le cose inutili, il far perdere tempo. È stata una specie di mise en abyme: dovevamo conservare la dinamica drammatica affinché lo spettatore rimanesse interessato”.
E quando il set chiude e il regista lascia gli attori, la troupe, così affrontando un distacco, la direzione verso una fase più solitaria, per Michel Gondry “la vita non è noiosa. Però ricomincio a sognare. Il momento è diviso in due parti: ci sono le persone che hanno fatto il film e che ne cominciano un altro, vivendo un piccolo momento di depressione, di mancanza; e poi c’è il regista, che non può riprendere subito con un altro film, ma rivive il set con gli attori nel montaggio: così ho l’impressione di non averli mai lasciati. Quando arrivo dal set al montaggio siamo disperati perché il film è come… malato, come fosse un bambino in ospedale, che necessita di essere fatto vivere”.
Gondry, durante questo incontro con il pubblico, oltre a centrare il discorso sull’ultimo film, affronta un dialogo intermittente tra creazione artistica in senso stretto e esperienza cinematografiche, così come gli incontri con Björk o Spike Jones: “Björk ha un metodo di lavoro che non mette le persone in concorrenza; per la sua filosofia, mettere le persone in concorrenza significa fargli perdere la fiducia in sé e così non si arriva alla soluzione. Ci sono due tipi di artisti: quelli come Björk che portano idee e mi hanno portato verso un altro livello, come la comprensione dell’arte moderna; altri come White che non mi portano idee ma mi permettono di approfondire, esasperare, le mie idee”, poi, con affettuosa ironia, aggiunge: “Spike Jones ho l’impressione che mi copi, ma anche io lo copio; provo una certa gelosia, che lui non riconosce, è falsamente cool”.
E, parlando di artisti, non si può non parlare di attori, del mestiere dell’attore, questione su cui Gondry afferma che “c’è una cosa molto importante per un attore, almeno se lavora con lui: non bisogna dar l’impressione che si abbia bisogno di recitare quel ruolo per vivere, perché è come andare da una persona che amate e fargli capire che si è innamorati, questo fa un po’ paura. Bisogna tenere una certa distanza, questo per ottenere il ruolo. Poi, non bisogna aver paura di proporre cose che possano parere un po’ strane: il regista apprezzerà l’attore che vuol correre dei rischi. Bisogna dimostrarsi poco disperati”.
E, entrando nello specifico di due attori con cui ha lavorato, Jim Carrey e Kate Winslet, coppia in Se mi lasci ti cancello, condivide uno spassoso aneddoto: “quando ho chiesto a Kate di lavorare con me mi ha detto: ‘mi devi prendere purché io sia come Jim Carrey’. Quando parlavo con uno non volevo l’altro sentisse: a lui dicevo non fosse una commedia, a lei sì. Sul set si detestavano cordialmente. L’ultimo giorno, lui le ha regalato dei fiori con un nastro: ‘caro Jim, buona fine lavorazione’ aveva scritto”.
Michel Gondry, oltre che un regista di personalità, è anche un’ispirazione, a tal punto che gli è stata intitolata una scuola, questione che “mi ha fatto molto piacere, mi piace molto anche l’edificio Anni ‘50. È una cosa bella: in genere le persone a cui sono intitolate le scuole sono morte, io sono ancora vivo e ci vado un paio di volte all’anno. È difficile da spiegare, è una scuola media, sono ragazzi molto giovani ispirati dal mio lavoro, che però non fanno necessariamente cose che mi piacciono”, precisa, con la sua usuale delicata lievità, a tratti simpaticamente pungente.
Gondry è anche padre di una fabbrica di cinema amatoriale, l’Amateur Film Factory, di cui racconta: “se cerco di ricordarmi il momento in cui ho avuto l’idea… sono stati almeno 5: mio padre negli Anni 80 s’è preso una videocamera e quando un giorno i miei non c’erano abbiamo girato con gli amici, e ci era molto piaciuto, così ho voluto riprendere questa idea; poi, dove abito a Parigi, ci sono dei negozi dismessi, così avevo pensato di dare alle persone la mdp per riprenderli, per poi proiettare i video, e così guadagnare qualcosa e investirla in qualcosa d’altro. E così via. Il sistema di questa Factory funziona con gruppi di 10/12 persone, con cui scriviamo una dozzina di righe, ciascuna corrisponde una scena, che viene girata con piccole scenografie che mettiamo a disposizione, poi c’è un tecnico che unisce le scene, senza montaggio, e il film viene proiettato in una saletta. La qualità dei film non è straordinaria, non sono tutte persone interessate al cinema quelle che partecipano, ma c’è gioia: si impara che si ha un potenziale creativo al di là del mestiere e dell’età, e della vita, che a volte soffoca per vivere”.
Gondry, di cui è nota anche l’insonnia, confida che “ci sono alcune attività che posso fare quando non riesco a dormire, come le crêpes o disegnare fumetti per mia figlia di 8 anni, o guardare documentari sulla Formula 1. Niente di fantastico, insomma”. Infine, sollecitato da una domanda del pubblico, sul suo universo onirico, ma nello specifico domandando se abbia mai sognato la propria morte, lui non elude la risposta, con un tocco d’ironia pragmatica: “in effetti, non so ancora se vorrò essere cremato, se preferisco un cancro, un incidente o una guerra, o essere mangiato dai topi – mi vendico della domanda! dicendo queste cose. Comunque, penso metterò strisce antiscivolo sui gradini della scala della mia casa a Los Angeles”.
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