Presentato in anteprima al Torino Film Festival, Non riattaccare, thriller scritto e diretto da Manfredi Lucibello è stato proiettato anche nella cornice del decimo Milazzo Film Festival, prima di essere distribuito ufficialmente nelle sale probabilmente nella prossima finestra estiva. Ambientato durante la pandemia, vede come protagonista Irene, interpretata da Barbara Ronchi che, una notte, riceve la chiamata del suo ex, Pietro, che ha la voce di Claudio Santamaria. L’uomo è disperato e sta pensando di uccidersi e alla donna non resta altro che salire in macchina e affrontare la notte più buia e lunga della sua vita.
Claustrofobico e ricco di suspence, Non riattaccare fa affidamento interamente sulle interpretazioni dei suoi unici due attori – quella vocale di Santamaria e quella a tutto tondo di Ronchi – chiamati a una sfida recitativa unica nel suo genere. Non a caso, il film ha aperto un’edizione del Milazzo Film Festival intitolata “Attortudio” e dedicata al fragile e misterioso mestiere dell’attore.
Manfredi Lucibello, in che modo la pandemia ha influenzato la nascita di questo progetto?
È stato un periodo in cui ci siamo trovati tutti soli. Io ho la fortuna di essere anche uno sceneggiatore e scrivere per me è diventato un motivo per alzarmi la mattina. Il romanzo da cui è tratto il film è del 2008, e la pandemia era la cornice perfetta per raccontare questa storia.
Come ha lavorato sull’adattamento?
La fortuna è che il romanzo è molto aperto, i protagonisti non hanno nemmeno un nome. Era molto concettuale: la storia di un uomo e una donna senza indagare il loro passato. Per cui ho ricostruito i personaggi: Pietro e Irene sono frutto delle mie esperienze, della mia vita. Proprio in quel periodo ho scoperto che aspettavo una figlia e quindi questo tema della paternità è entrato prepotentemente nel racconto. Vi ho riversato le mie paure, per esorcizzarle.
Parlando dell’aspetto cruciale del film, il casting. Immagino che la scelta di Santamaria sia arrivata anche alla luce della sua grande esperienza come doppiatore.
È stato tutto molto semplice, lui è stato il primo attore a cui ho pensato, l’ho chiamato e ha detto subito sì. È un attore coraggioso e qui ha visto una sfida: la possibilità di fare un ruolo solo al telefono.
Come è stato dirigere una voce?
Non è stato come fare un doppiaggio, è stato un nuovo modo di approcciarsi alla recitazione. Gli mandavo la voce di Barbara e lui recitava. Era microfonato come normalmente si fa al cinema e quindi si muoveva liberamente per interpretare la scena. Questo ha fatto la differenza. Poi lui ha sempre voluto mettersi in gioco, anche quando io ero soddisfatto, ha sempre spinto per continuare. È un attore di grande esperienza e non si accontenta mai.
Il casting di Barbara Ronchi è stato più canonico? Cosa cercavate nella protagonista?
Ovviamente si lavora insieme alla casting director. Abbiamo preparato le due scene cruciali e quello che volevo era un’attrice che potesse darmi qualcosa in più di quello che io avevo in mente. Ho subito notato che Barbara aveva un’idea precisa della sua Irene: è come se le appartenesse. Se tornassi indietro e mi dicessero che Barbara non è disponibile a fare il ruolo, non farei il film.
Lei ha girato due film, entrambi thriller. Cosa l’affascina di questo genere?
Penso che il thriller ci dia la possibilità di investigare il lato più oscuro dell’essere umano. In verità, però, quando vai a scavare nel buio, quello che trovi è sempre la luce. Quello che rimane è l’altro lato, quello luminoso, non bisogna darlo per scontato, va cercato.
In entrambi i casi la protagonista è una donna, così come nel documentario Tutte le mie notti, con Benedetta Porcaroli. Come mai questa predilezione?
Sono tutte cose che mi sono capitate. Mi ritengo molto fortunato, perché scrivendo questi personaggi ho avuto la possibilità di arricchirmi molto.
Ci sono dei rischi nello scrivere personaggi femminili?
All’inizio me lo sono chiesto, ma poi mi sono reso conto che deve venir fuori il mio mestiere, che è quello di scrivere. Devi avere empatia. Mi sono messo nei panni di una donna ed è stata un’esperienza estremamente bella, ho imparato tante cose. Ho osservato molto: Irene è il frutto di tante mie conoscenze. Zavattini diceva: andate a pedinare le persone negli autobus. Io osservavo le mie amiche.
Quale è stata la sfida registica di un film di questo tipo?
Dovevamo mettere su un film in autostrade deserte, restituendo il massimo del realismo. C’era una doppia sfida: la mia registica di basare tutto sui primi piani, stare sempre su di lei; e l’altra attoriale, perché per ottenere il realismo era importante che Barbara gestisse in prima persona l’automobile. Volevamo avere meno stunt possibili e lei c’è riuscita. La mia regia voleva seguire le sue emozioni ed è stata questa la grande sfida: ricreare una pandemia e provare a inserirla nelle emozioni di una grande attrice.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Sicuramente proseguiremo con Mompracem, anche se purtroppo non c’è più Carlo Macchitella che per me è stato come un padre. Sono felice di fare un film con i Manetti Bros e con Pier Giorgio Bellocchio: il terzo film sarà sicuramente un thriller e, chissà, spero di lavorare ancora con Barbara.
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